Petricchio esiste nella misura in cui vogliamo farlo esistere. Come il posto delle nostre estati da criaturi, ovunque esso sia. Da qualche parte c’è una Petricchio per tutti. Petricchio è mare, montagna, lago, campagna. È Narnia, Rokovoko, Hogwarts. È il quartiere e il cortile in cui abbiamo disegnato i nostri momenti felici. Non importa dov’è. Importa che esista.
A proposito dei posti del cuore…
Fabienne Agliardi ambienta il suo romanzo a Petricchio: Appetricchio – “moto a luogo con rinforzo di consonante“, come lo ha definito l’autrice – si parla un dialetto tutto particolare, con prestiti linguistici variegati, e con personalizzazioni originali, eufoniche e azzeccate. Il risultato è sorprendentemente comprensibile, trascinante ed esilarante. Cioè, alla fine ti senti tutto appetricchiato e quasi parli in appetricchiese. In caso di necessità, c’è il paracadute, ovvero il glossario alla fine, ma non vi servirà, ci pensa la prosa e ci pensano i personaggi a farvi sentire a casa. Risate, garantite, nostalgia pure. E anche tanta ammirazione per l’autrice, che ha reso universale un cucuzzolo di case di pietra – “un centinaio di casupole sparse a cerchi concentrici” -, difficile da raggiungere, a causa di un ponte malfermo che gli abitanti evitano – il ponte dei Pertusi, cioè dei buchi… -, impossibile da fare proprio se sei forestico, circumnavigabile percorrendo un viottolo a forma di uroboro, che giri e giri e torni al punto di partenza. Un luogo che ti sembra di conoscere, specialmente se hai origini simili, anche se in altre regioni (lo dico da garfagnina).
Con grande abilità stilistica e affabulatoria, Agliardi diverte e intenerisce, e con lievità suggerisce una riflessione profonda su affetti, origini e conservazione di un patrimonio linguistico e di tradizioni che non vorremmo lasciare andare in oblio.

