Amianto, di Sébastien Dulude, La Nuova Frontiera editore 2025, traduzione dal francese (Canada) di Camilla Diez, pp. 192

Durante le mie esplorazioni delle novità editoriali francesi, mi sono imbattuta in questo romanzo. Nonostante la mia conoscenza basilare del francese, sono sempre stata attratta dalla vivacità culturale di questo paese, frutto anche della sua multiculturalità. Dopo aver letto alcune recensioni entusiastiche sull’opera dello scrittore canadese Sébastien Dulude, originario del Quebec e autore in lingua francese, ho appreso con piacere che La Nuova Frontiera, editore noto per portare in Italia opere di grande valore, lo ha recentemente pubblicato nella traduzione di Camilla Diez. Ho subito scaricato e letto il romanzo, confermando l’ottima impressione che aveva suscitato non solo in me, ma anche in numerosi giornalisti che ne avevano parlato.

Un tempo soprannominata la “Città dell’oro bianco”, Thetford Mines basava la sua economia e dava lavoro in svariati siti di estrazione dell’amianto; dopo che il minerale fu identificato come cancerogeno negli anni ’80, iniziarono a chiudere, con l’ultima chiusura nel 2012.
La storia narrata ci porta indietro alla fine degli anni Ottanta, in una città che è una miniera di amianto a cielo aperto, un’enorme voragine velenosa nel mezzo di una vasta foresta. Un fantastico parco giochi per i ragazzini ignari la cui presenza minacciosa infonde al racconto fin dall’inizio un senso di tragedia imminente.

Il primo romanzo di Sébastien Dulude si connota come un resoconto intimo della crescita di un bambino, poi adolescente, nella città durante il suo periodo di declino, quando i drammi ordinari dell’infanzia e dell’adolescenza si consumano sullo sfondo di un’industria morente e sull’impatto sulla società ad essa legata.
Per molti versi mi ha riportato indietro alla lettura di Acciaio di Silvia Avallone, ambientato in una Piombino afflitta dal declino industriale e dall’impatto sulla società. Un romanzo anch’esso di ambientazione operaia e di formazione. 

Amianto di Sébastien Dulude è un romanzo che scava nelle profondità dell’infanzia, illuminando le zone d’ombra che spesso rimangono celate dietro la facciata dell’innocenza. Attraverso gli occhi di Steve Dubois, un bambino di nove anni dall’indole timida e dalla passione per i libri e la musica, Dulude ci conduce in un viaggio emotivo intenso e a tratti doloroso.
La prima metà di questo romanzo di formazione segue l’appassionante amicizia tra il protagonista di nove anni, Steve, e il suo compagno Poulin. I due passano i pomeriggi giocando e inventandosi piccole avventure: decorano una baita improvvisata nel bosco, leggono le avventure di Tintin, si avventurano in una miniera abbandonata, trasformando i cumuli di scarti in un teatro di giochi pericolosi. Qui, una reliquia della flotta mineraria di veicoli in disuso, uno pneumatico gigantesco alto tre metri, diventa il protagonista di discese rocambolesche lungo i pendii.
Mentre esplorano la città, la polvere fibrosa, onnipresente come un sudario, si solleva sotto i loro passi, aderendo alla pelle sudata come una pellicola grigia e gessosa. Le esplosioni di dinamite, che scandiscono il ritmo della vita quotidiana sei volte alla settimana, alle sedici in punto, incrinano le finestre e le certezze. Sono questi dettagli vividi e sensoriali, la polvere che si attacca alla pelle, il rombo delle esplosioni, che rivelano la vera maestria di Dulude nel dipingere un quadro indimenticabile.

Steve vive in un ambiente familiare opprimente, cresce all’ombra di un padre, camionista della miniera di King-Beaver, soggetto a improvvisi e violenti scoppi d’ira, sia verbali che fisici, e di una madre che lotta contro la depressione. Un clima familiare tossico, dominato dalla figura di un padre severo e autoritario, ossessionato dall’idea di forgiare un figlio a sua immagine: forte, virile, insensibile.
La violenza paterna emerge con forza evocativa: una minaccia costante, una paura radicata, quasi banale nella sua insopportabilità. La virilità di quest’uomo, messa in crisi dai problemi legati al lavoro, si rivela una costruzione tossica di mascolinità, da cui il figlio cerca di allontanarsi.

La famiglia Poulin, invece, con il padre di Charlélie insegnante di scuola superiore, rappresenta un’oasi di cultura e serenità, offrendo a Steve una via di fuga da un ambiente familiare opprimente. Tuttavia, l’infanzia dei ragazzi è segnata anche da eventi catastrofici, che registrano su un “album delle catastrofi”, un quaderno che raccoglie ritagli di giornale raffiguranti disastri e tragedie, come il disastro di Chernobyl e l’esplosione dello Space Shuttle Challenger, a cui assistono in diretta televisiva a scuola, osservando quegli “strani e desolati fuochi d’artificio diurni” insieme a insegnanti attoniti. Questi eventi, come le miniere stesse, agiscono da sinistri presagi, avvertimenti sui costi nascosti del progresso tecnologico, e prefigurano le tragedie che sconvolgeranno la vita di Steve.

Nella seconda parte del romanzo, ambientata cinque anni dopo, nel 1991, Steve, ormai adolescente, si trova a confrontarsi con perdite molto più tangibili e concrete.
Nell’adolescenza, Steve si rifugia in un mondo di ansia e alienazione, trovando conforto nel grunge e nel metal, espressioni di una individualità tormentata. Il suo desiderio di un bacio, sia esso rivolto a una ragazza o a un ragazzo, prima della fine del liceo, risuona con l’inquietudine di un giovane Holden Caulfield, una voce che oscilla tra l’accattivante e il lamentoso. Il dono di una moto da cross da parte del padre, lungi dall’essere un gesto d’amore, viene percepito da Steve come un’ulteriore conferma della distanza tra loro, un amore “isolato dalla mia identità”. Attraverso un elogio funebre, Steve cerca di dare voce al suo trauma, di esorcizzare il dolore che lo consuma. L’incontro con Cindy, una figura che riecheggia Charlélie, ma con due anni in più e un’istruzione professionale, segna una svolta. Il suo anticapitalismo nascente risveglia in Steve una coscienza politica, una nuova consapevolezza dello sfruttamento su cui si fonda la sua città natale. Il risultato è un risentimento profondo, una sete di distruzione che minaccia di consumarlo.

Questo primo romanzo dell’autore canadese ha probabilmente un sostrato autobiografico. Dulude, infatti, è cresciuto a Thetford Mines tra i sei e i sedici anni, e ha descritto Steve come il suo alter ego. Il ritratto del ragazzo, con evidenti sfumature queer, deve molto alle esplorazioni personali dell’autore sulla tensione tra classe operaia e omosessualità. Il padre di Steve, con la sua omofobia latente, i suoi commenti sprezzanti sulla passione del figlio per i fiori e il suo disprezzo per l’istruzione è una figura centrale nel romanzo. Proprio per questo, sorprende scoprire che il padre di Dulude apparteneva a una classe sociale diversa: non un camionista, ma un avvocato giunto in città per supervisionare la chiusura delle miniere. Lungi dall’essere un’autobiografia, Amianto si rivela così un’indagine sulla mascolinità, un’esplorazione delle dinamiche relazionali tra ragazzi e uomini, e di come tali confini evolvono dall’infanzia all’adolescenza. 

Amianto è stato ben accolto in Francia, dove esiste una solida tradizione di romanzi industriali, come ad esempio Germinal di Émile Zola. In effetti, c’è un’epopea sociale e industriale sullo sfondo di questa storia: l’estrazione dell’amianto fornisce un esempio lampante dei problemi che perseguitano tutte le industrie estrattive, come fonti di ricchezza e distruzione, occupazione, infortuni e malattie professionali.

Steve, come suggerisce il romanzo, troverà un modo per scappare dalla sua città natale e andare a Montreal, ma la sua storia costringe i lettori a confrontarsi con i paesaggi devastati e lo sfruttamento delle risorse naturali che alimentano la nostra economia e le vite che ruotano attorno a loro. Combattendo la tendenza a spingere tali luoghi ai margini del nostro immaginario, Dulude li mette al centro della narrazione, descrivendo come essi possono condizionare le vite delle persone. Esattamente come ha fatto Silvia Avallone in Acciaio

Dulude riesce a creare un’atmosfera carica di tensione e ambiguità, in cui la bellezza dell’amicizia infantile si intreccia con la brutalità della violenza familiare. Il romanzo esplora con delicatezza e profondità temi come il passaggio all’età adulta, la formazione dell’identità, la ricerca di accettazione e il trauma, lasciando nel lettore un senso di inquietudine e commozione.

Amianto è un romanzo potente e toccante, che ci ricorda come l’infanzia, spesso idealizzata come un’età dell’oro, possa essere un periodo di vulnerabilità e sofferenza. La scrittura di Dulude, precisa e evocativa, che deve molto anche al suo essere un poeta, ci conduce attraverso un labirinto di emozioni contrastanti, lasciando un segno indelebile nel cuore del lettore.

Qui potete leggere l’incipit.

Sébastien Dulude è nato a Montréal nel 1976 ed è cresciuto a Thetford Mines. Dopo aver studiato Giurisprudenza, si dedica alla letteratura, conseguendo un dottorato in Lettere all’Università del Québec a Trois-Rivières. Ha pubblicato le raccolte di poesie Chambres (2013), Ouvert l’hiver (2015) e Divisible par zéro (2019), ed è noto per le sue performance che mescolano poesia e arte visiva. Nel 2024 ha pubblicato il suo primo romanzo, Amianto, ispirato alla sua giovinezza a Thetford Mines. È direttore letterario delle Éditions La Mèche e molto attivo nella scena letteraria del Québec.