Nel vasto lessico della lingua italiana, esistono parole che, pur non essendo di uso comune, offrono sfumature di significato capaci di descrivere con precisione atteggiamenti e stati d’animo umani. Tra queste, “resipiscienza” e “sicumera” si pongono quasi come antitesi, delineando due estremi del comportamento intellettuale e emotivo. Mentre la resipiscienza evoca un momento di lucida presa di coscienza, un ripensamento critico che porta al riconoscimento di un errore e a un cambiamento di rotta, la sicumera descrive un’eccessiva e spesso ingiustificata sicurezza di sé, una presunzione che impedisce la riflessione e l’ammissione di fallibilità. La prima suggerisce un percorso di maturazione e umiltà, tipico di chi sa riconoscere i propri limiti; la seconda, al contrario, dipinge il ritratto di chi, accecato dalla propria supponenza, si preclude la possibilità di crescita e apprendimento. Entrambe le parole, seppur con valenze opposte, si rivelano strumenti preziosi per analizzare e comprendere le dinamiche sottili che regolano il giudizio e il comportamento umano.

Resipiscienza, /re·si·pi·scèn·za/: [dal lat. tardo resipiscentia, der. di resipiscens –entis «resipiscente», che a sua volta viene da resipiscens -entis, participio presente di resipiscere, verbo che significa “riprendere i sensi”, “rinsavire”, “ravvedersi”]. Rinsavire, ravvedersi, riconoscendo l’errore in cui si è caduti, o il male fatto, tornando al retto operare.

La resipiscenza è un termine che indica l’atto di ravvedimento, ovvero il riconoscere di aver sbagliato e il tornare a un comportamento corretto o a una condizione migliore; è un atto di onestà e di presa di coscienza che può portare a un cambiamento positivo sia a livello individuale che in contesti più ampi. È un concetto che va oltre il semplice pentimento, in quanto sottolinea la ritrovata lucidità e la volontà di correggere la propria condotta.
Il termine resipiscenza è spesso usato in contesti formali, letterari o giuridici.

  1. In ambito generale/letterario:
    • “Dopo anni di condotta scellerata, finalmente mostrò un segno di resipiscenza, decidendo di cambiare vita.” (Qui si sottolinea il riconoscimento dell’errore e il proposito di cambiamento).
    • “La sua tarda resipiscenza non gli giovò, poiché il danno era ormai irreparabile.” (Indica che il ravvedimento è arrivato troppo tardi per avere un effetto positivo).
    • “Si attendeva una resipiscenza da parte del politico, un’ammissione di responsabilità e un passo indietro.” (Sottolinea l’aspettativa di un ravvedimento consapevole e attivo).
  2. In ambito giuridico: Nel diritto penale, la resipiscenza assume un significato più specifico e può fare riferimento a un comportamento del colpevole che volontariamente e in modo efficace impedisce, attenua o elimina le conseguenze del reato. Può essere considerata una circostanza attenuante o, in casi specifici, portare all’impunità.
    • “La resipiscenza del reo, che ha collaborato attivamente con le forze dell’ordine per la liberazione dell’ostaggio, ha portato a una riduzione della pena.” (In questo caso, la resipiscenza si traduce in un’azione concreta che mitiga il danno).
    • “La legge prevede particolari disposizioni per incentivare la resipiscenza degli autori di determinati reati.” (Si riferisce a misure volte a favorire il ravvedimento operoso).

In sintesi, resipiscenza è una parola che denota un profondo e consapevole cambiamento interiore, un passaggio dall’errore o dal male alla retta via, spesso accompagnato da azioni concrete volte a rimediare o a prevenire ulteriori danni.

Sicumera, /si·cu·mè·ra/: Sussiego, presunzione, alterigia.

La parola “sicumera” deriva dal latino securum (sicuro) e dal suffisso –era, che in questo contesto assume un valore peggiorativo o aumentativo. L’origine è dunque intrinsecamente legata al concetto di sicurezza, ma con una connotazione che ne esaspera o distorce il significato primario. Non si tratta semplicemente di essere sicuri, bensì di un “troppo sicuro”, un’ostentazione di certezza che spesso sconfina nella presunzione. Il percorso etimologico ci suggerisce come il termine sia nato per descrivere non la vera e propria sicurezza, ma piuttosto la sua manifestazione esteriore, la sua “messa in scena”.

Il significato principale di sicumera è quello di eccessiva e ostentata sicurezza di sé, presunzione, alterigia. Non si riferisce a una sicurezza genuina, basata su competenze o esperienza, ma piuttosto a un atteggiamento arrogante, un’ostentazione di infallibilità che non trova sempre riscontro nella realtà dei fatti.

La sicumera si manifesta spesso attraverso:

  • L’alterigia: un modo di fare altezzoso, che guarda gli altri dall’alto in basso.
  • La vanagloria: il desiderio di essere ammirati, di ostentare le proprie (presunte) qualità.
  • La mancanza di umiltà: l’incapacità di riconoscere i propri limiti o di accettare critiche.
  • L’ostinazione ingiustificata: il persistere in una convinzione anche di fronte all’evidenza contraria.

È importante sottolineare che la sicumera è quasi sempre percepita negativamente. Non è una qualità desiderabile, bensì un difetto che può compromettere le relazioni interpersonali e ostacolare la crescita personale. Chi agisce con sicumera tende a sottovalutare i rischi, a non ascoltare i consigli e a commettere errori a causa della propria eccessiva fiducia in sé.

Il termine sicumera trova il suo impiego ideale in contesti dove si vuole descrivere un comportamento presuntuoso o una sicurezza eccessiva e ingiustificata. Non è un termine tecnico, ma piuttosto un descrittore efficace di un tratto caratteriale.

In sintesi, sicumera è una parola potente e descrittiva, che ci permette di identificare e criticare quella forma di sicurezza che, invece di essere una virtù, si trasforma in un ostacolo, una maschera di presunzione che nasconde insicurezze o, peggio, una superficialità di giudizio. È un monito a coltivare una sana autostima, ma sempre accompagnata da umiltà e consapevolezza dei propri limiti.

Che mi dite di queste due parole? Le usate? Personalmente credo che la seconda capiti ancora di incontrarla, la prima quasi mai.