Acqua sporca, di Nadeesha Uyangoda, Einaudi Stile Libero 2025, pp. 288

A che serve altrimenti morire così come si è nati, senza un fine e senza un posto? Si torna per accertarsi che nelle piante, nelle creature, nella gente sia rimasto qualcosa di tuo, una traccia che dimostri che si è esistiti anche quando, altrove, si è stati indaffarati a non esserlo.

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Acqua sporca è il romanzo d’esordio nella narrativa di Nadeesha Uyangoda. L’autrice, nata in Sri Lanka e cresciuta in Italia, mette in scena una saga famigliare che intreccia storie femminili tra lo Sri Lanka e l’Italia, esplorando le lacrime, le aspettative infrante, le migrazioni e lo sradicamento.

La trama ruota intorno a quattro donne: Neela, dopo trent’anni come badante e domestica in Italia, decide di tornare nello Sri Lanka; Himali, sua sorella, vive nell’isola, ha cresciuto da sola una figlia adottiva dopo la partenza del marito per l’Europa; Pavitra, la sorella più giovane, affronta la disabilità e le difficoltà economiche; Ayesha, la figlia di Neela, cresciuta a Milano, soffre di precarietà personale ed economica, di difficoltà di integrazione, e tenta di costruirsi un’identità che non la soddisfa pienamente.

Il romanzo intreccia il presente dell’Italia con le radici dello Sri Lanka, costruendo un affresco familiare denso e sfaccettato, fatto di ritorni, smarrimenti, desideri contraddittori. Uyangoda offre con la sua scrittura una riflessione viva su migrazione, identità, genere, classe — tematiche urgenti e molteplici, raccontate con lucidità e, al tempo stesso, con una vena poetica.

Neela, dopo trent’anni trascorsi in Italia tra lavoro domestico, badantato, un matrimonio fallito, una figlia, decide di tornare nello Sri Lanka. È un ritorno che è molto più di un viaggio geografico: è una scelta che muove maree emotive nella sua famiglia, riporta alla luce ferite antiche, ricordi e tensioni mai risolte. Il desiderio di partire è come un demone che spinge e disperde, come il lampo blu che Himali ricorda alla caviglia della sorella Neela, la notte del diluvio che le privò di tutto. Da allora, Neela ha vissuto trent’anni in Italia, accumulando un’esistenza lontana, e ora sogna di tornare alla sua “isola bella” (traduzione di Sri Lanka), attratta da radici forse immaginarie.
Sul luogo delle sue origini, Neela ritrova le sorelle Himali e Pavitra; entrambe portano il peso di vite che non sono pienamente realizzate: Himali ha cresciuto da sola una figlia adottiva dopo che il marito è emigrato; Pavitra vive una condizione di marginalità, legata a un matrimonio fallito, a una figlia e al desiderio — spesso frustrato — di cambiare vita.

Ayesha, immersa nella fatica della sopravvivenza della madre, si scontra con il divario fra ciò che sperava e ciò che può realizzare — in particolare nella sfera economica, sociale, affettiva.
Arrivata in Italia da bambina, abbandonata dal padre, cresce nell’ombra del riscatto mancato di sua madre, sacrificata al lavoro e alla cura degli altri. Nella casa di una famiglia agiata, illusa da un’appartenenza mai piena, impara presto a vergognarsi della sottomissione materna e della propria diversità, segnata dal colore della pelle e dall’impossibilità di vivere come i coetanei. Cerca allora rifugio in comportamenti al limite dell’autolesionismo, finché la psico-terapia — gesto inconcepibile nella sua cultura d’origine — e l’arte fotografica le offrono una fragile via d’uscita. Eppure, persino nella vita borghese conquistata accanto al compagno, scopre che il potere resta privilegio di chi già lo detiene. Come Hirunika, rimasta nello Sri Lanka, Ayesha incarna la rabbia delle seconde generazioni: più ferite delle prime, perché costrette a guardare da vicino un sogno che rimane inaccessibile.

Tutta la vicenda si sviluppa in uno spazio doppio: a livello geografico, l’Italia, luogo di migrazione, ascesa sociale che fatica a concretizzarsi, di alienazione, di desiderio di “assimilazione”; lo Sri Lanka, con le sue presenze ancestrali, le tradizioni, le ferite storiche, i miti, la magia e la credenza, ma anche l’oppressione dei ruoli familiari, delle aspettative sociali. A livello psicologico, due culture, due sensibilità.

Temi principali

  • Migrazione e sradicamento: Acqua sporca esplora cosa significa lasciare una terra, radicarsi in un’altra, ma poi sentirsi richiamare da quella che senti casa, anche se ormai distante. Il desiderio di tornare si scontra con paure, con una realtà mutata, con le aspettative che non sempre si realizzano.
  • Identità di genere, generazione e classe: le donne protagoniste incarnano diversi modi di affrontare il proprio destino, ma tutte si confrontano con limiti sociali, aspettative culturali, disuguaglianze economiche. Le “seconde generazioni”, in particolare Ayesha, vivono la frattura fra il sentire delle origini e il presente occidentale, soffrendo non solo di razzismo o discriminazione, ma del peso dell’aspettativa — personale, sociale — che spesso non può essere soddisfatta.
  • Spiritualità, mito, magia: lo Sri Lanka, nel romanzo, non è solo sfondo, ma presenza attiva — il folklore, le credenze ancestrali, gli spiriti sono parte del tessuto narrativo. Questo dà profondità, ma anche tensione: conflitti tra una visione del mondo materialista, occidentale, e una visione che accetta l’invisibile, l’indicibile.
  • Salute mentale, dolore, aspirazioni frustrate: il disagio psicologico di Ayesha, le aspettative deluse, le vite sacrificate per la sopravvivenza – tutto contribuisce a un ritratto che non edulcora, ma non dispera totalmente.
  • Ruolo maschile: gli uomini, nel romanzo, sono ombre fragili e sconfitte: violenti, dipendenti, incapaci di essere padri o compagni. Dal marito tossicodipendente di Neela al bracciante alcolizzato Romesh, fino alla brutalità del marito di Pavitra e all’apatia di Fabiano, compagno di Ayesha, emerge un ritratto comune: la volontà atrofizzata, deformata da un contesto culturale che li condanna all’impotenza

Stile e linguaggio

  • Uyangoda adopera una voce narrativa mobile, che alterna il punto di vista in terza persona a quello in prima (soprattutto quello di Ayesha), permettendo al lettore di entrare nei pensieri, nei conflitti interiori, nei desideri non sempre espressi.
  • La lingua è “ibrida”: nitida, spesso poetica, mai eccessivamente ornamentale, ma attenta ai dettagli, agli oggetti concreti, alle situazioni familiari, affinché ogni elemento dialoghi con il tema più ampio. Non c’è retorica di facciata: la compassione verso i personaggi è reale, ma Uyangoda non offre soluzioni facili, non indulge al consolatorio.

Personalmente, credo che il romanzo abbia solidi punti di forza ma anche alcune questioni aperte.
L’intreccio fra due mondi (Italia – Sri Lanka) è reso con sensibilità e precisione: le culture, il linguaggio, le tensioni sociali sono vissute “da dentro”. Il modo in cui Uyangoda mette al centro le donne, con le loro contraddizioni, le loro forze e debolezze, ne fa un romanzo femminista non per autodichiarazione, ma per scelta narrativa. Inoltre, la capacità di trattare temi impegnativi (migrazione, perdita, identità, salute mentale) senza mai cadere nel pietismo, nel didascalico o nella morale banale non è così scontata né comune.

Di contro, alcune svolte narrative possono sembrare forse un po’ prevedibili: il conflitto fra generazioni, il desiderio di identità, il ritorno alle origini sono temi già esplorati. Ciò che distingue il romanzo è il dettaglio, la lingua, la prospettiva femminile. Il finale (di cui non voglio svelare troppo) lascia in sospeso più di una domanda importante, specialmente riguardo al riscatto sociale, all’appartenenza e alla capacità di cambiare il proprio destino. Questo può essere frustrante per chi cerca una conclusione netta, ma è coerente con l’impostazione del romanzo. Talvolta la molteplicità dei punti di vista può diluire l’azione, rallentare il ritmo: il focus sull’interiorità, sulle memorie, sulle tensioni interiori fa sì che le trasformazioni esteriori si compiano in modo lento.

Quindi, detto tutto ciò, Acqua sporca è un esordio che posso definire intenso e ambizioso, che conferma Nadeesha Uyangoda come una voce importante della narrativa italiana contemporanea — soprattutto nel panorama delle storie migranti, delle seconde generazioni, delle identità plurali. È un libro che non si legge solo per intrattenimento, ma per restare interrogati, per portare via con sé domande che non si devono e non si possono risolvere subito.

Lo consiglio a chi ama i romanzi che mescolano personale e politico, storie di donne, storie che attraversano più continenti, che non hanno paura di guardare al dolore ma anche di riconoscere le luci, i miti, la forza che può nascere dall’esser sopravvissute. Piacerà a chi ama le storie con profonde dimensioni emotive, che scavano nella psicologia dei personaggi e a chi apprezza una scrittura densa ma non pesante, elegante, che alterna realismo crudo e momenti di riflessione poetica

Come i vecchi rimpianti e i vizi assurdi, tutto era passato, soprattutto la vita.

Pag. 275

Dal punto di vista dei confronti, Acqua sporca può essere accostato ad altri romanzi italiani contemporanei che trattano di migrazione e identità (per esempio le opere di Igiaba Scego, di Saba Anglana, di Diriye Osman, o di Cristina Ali Farah), ma anche a saggi narrativi che esplorano la questione razziale e della “doppia appartenenza”. Il punto di forza di Uyangoda è che non si limita a denunciare: costruisce le vite interiori, mostra la complessità, evita gli stereotipi, così come fanno spesso autrici che mescolano memoir e finzione.

Qui potete leggere l’incipit.

Nadeesha Uyangoda è una scrittrice italofona nata in Sri Lanka, autrice del libro L’unica persona nera nella stanza (66thand2nd 2021) – vincitore del Premio Sila nella sezione «Economia e Società» e del Premio Rapallo Speciale «Anna Maria Ortese» – e di Corpi che contano (66thand2nd 2024). Per Einaudi ha pubblicato Acqua sporca (2025). Inoltre, è ideatrice del podcast Sulla Razza (Juventus/OnePodcast), ha scritto per media nazionali e stranieri e cura la rubrica Il libro di «Internazionale».