Il termine “manigoldo” richiama la figura di un individuo rozzo, malintenzionato o moralmente spregevole, storicamente associato anche al boia o a chi compie azioni vili; tuttavia, nel suo uso più recente ha acquisito una connotazione ironica, se non benevola. “Mutria” indica invece un atteggiamento altero, un cipiglio di ostentata fierezza o scontrosità, più legato all’espressione del volto che alla condotta etica. Entrambi i vocaboli condividono un’aura di negatività e di distanza dai valori socialmente apprezzati: il manigoldo incute riprovazione per ciò che fa, la mutria per come si mostra. Si distinguono tuttavia per natura e uso linguistico, poiché il primo designa una persona o un ruolo connotato sul piano morale, mentre il secondo descrive una postura emotiva o comportamentale, spesso passeggera e interpretata nel contesto relazionale.

Manigoldo, /ma·ni·gól·do/: persona capace di azioni malvagie, birbante, briccone, canaglia, delinquente, disgraziato, farabutto, filibustiere, furfante, (fam.) malandrino, mascalzone, masnadiere.

La parola manigoldo è una di quelle gemme linguistiche che suonano come un insulto elegante, degno di un duello verbale tra gentiluomini. Deriva dal latino manu guldus o, secondo altri, dal francese antico manigault, con il significato originario di “servo delle mani”, ossia colui che eseguiva materialmente i lavori più brutali — in particolare, il boia o il carnefice. Da qui il passaggio semantico è breve e letale: il “manigoldo” diventa presto sinonimo di individuo spregevole, furfante, birbante di un certo rango. Nel linguaggio comune, tuttavia, il termine ha conservato una sua irresistibile nobiltà d’altri tempi: chiamare qualcuno “manigoldo” oggi è quasi un complimento alla fantasia lessicale, un modo per insultare con grazia, come chi lancia il guanto della sfida con un sorriso ironico e un tocco di teatralità linguistica.

Mutria, /mù·tria/: Espressione del volto abitualmente e ostinatamente accigliata, chiusa a qualsiasi moto di simpatia, per malumore o per alterigia.

La parola mutria evoca un certo broncio aristocratico. Deriva dal francese moutrie o forse dal provenzale mut, imparentato con muet (“muto”), e indica quel particolare atteggiamento del volto chiuso, corrucciato, ostentatamente silenzioso, che nasce da superbia o risentimento. In breve: chi fa mutria non parla, ma comunica moltissimo — e nulla di piacevole. È un broncio che vuole essere eloquente, un manifesto d’orgoglio ferito o di sdegnosa superiorità. Nel linguaggio letterario e popolare ottocentesco la parola era assai gustata: dire “fare mutria” significava “fare il muso lungo”, ma con un tocco di civetteria teatrale.

L’unico caso in cui mi ricordo di averla letta nella letteratura novecentesca risale a Pier Paolo Pasolini. A partire dall’inizio del 1975 e fino alla morte, Pasolini pubblicò una serie di editoriali e interventi sul «Corriere della Sera» e sul settimanale «Il Mondo». Furono poi raccolti e pubblicati postumi, nel 1976, da Einaudi con il titolo «Lettere luterane. Il progresso come falso progresso».

Uno degli interventi più struggenti è la lettera luterna contro i campioni dell’infelicità e indirizzata a «Gennariello», che assurge a simbolo di tutti i giovani, ai quali Pasolini rivolge l’augurio di sfuggire alla rinuncia, all’infelicità e alla retorica della bruttezza.

“Non lasciarti tentare dai campioni dell’infelicità, della mutria cretina, della serietà ignorante. Sii allegro.”

Cosa pensate di queste due parole? Le utilizzate? Vi piacciono?