Il concorso è l’ultimo romanzo della scrittrice spagnola Sara Mesa, tradotto in italiano da Elisa Tramontin, edito da La Nuova Frontiera (2025). Di lei avevo letto La famiglia, opera che mi aveva subito conquistata.
Chi lavora all’interno degli uffici pubblici (ma non solo) lo sa: la burocrazia non è solo un insieme di procedure, ma un organismo vivo, che respira, che assorbe. Nel suo nuovo romanzo Sara Mesa ci invita a esplorare questa macchina dall’interno, attraverso gli occhi di una giovane impiegata che studia per un concorso che dovrebbe concederle stabilità e sicurezza, e che, per non sparire, sceglie di guardare con attenzione tutto ciò che la circonda: i silenzi, le stanze, la noia, i gesti ripetuti. Una resistenza piccola ma feroce, quasi invisibile eppure tenace.
Fin dai primi giorni si trova chiusa in un edificio gigantesco, pieno di scale, corridoi, uffici condivisi, stanze chiuse — un microcosmo quasi claustrofobico che assorbe e respinge allo stesso tempo; è immersa in un ambiente opprimente e poco trasparente, dominato da mansioni vaghe, regole contraddittorie e direttive insensate, con colleghi assuefatti alla routine, che sembrano accettare l’inerzia e la mediocrità. La burocrazia appare come un ecosistema impermeabile, che non accetta deviazioni né domande troppo dirette.
Man mano che il tempo passa, prende piede un senso di disagio che cresce in silenzio. Per resistere alla pressione, la protagonista inizia a tenere una specie di diario mentale, cerca rifugio nella scrittura, nel disegno, nella poesia e nella semplice osservazione quotidiana; deve decidere se adattarsi, tacere, diventare parte del meccanismo, oppure se rifiutare, mettere in atto piccoli gesti di sovversione interiore, tentare di non essere inghiottita. Il concorso insomma diventa sia la meta, sia lo specchio di un sistema che vorrebbe che lei – come tanti – si uniformasse.
La domanda implicita che scava nella sua coscienza è: se entro nel sistema, cosa perdo? Quali parti di me si ammutoliscono? Quali desideri si anestetizzano?
Lo stile è limpido ma tagliente: Mesa adopera una prosa incisiva, senza fronzoli, un ritmo narrativo che non concede pause facili, e un tono che alterna ironia e tensione interiore. Non ci sono cadute nella retorica, ma un’attenzione meticolosa ai dettagli minimi della vita d’ufficio, agli sguardi, alle frasi non dette, che rendono l’oppressione più realistica e percepita.
Il romanzo può leggere come una satira sociale, ma anche come un racconto dell’alienazione individuale all’interno di una struttura apparentemente neutra ma profondamente ingiusta. Si tratta di un tema caro all’autrice: le regole invisibili, i poteri che operano senza essere visti, l’individuo confrontato con l’apparato. Mesa utilizza l’ufficio, la burocrazia, il concorso come metafore di uno stato più ampio: la società contemporanea, dove lavorare significa spesso essere presenti piuttosto che fare qualcosa di significativo. In un’intervista, l’autrice afferma: «quanto più vulnerabile è la persona dietro, tanto più psicopatica diventa la burocrazia».
In un tempo in cui molte persone nel mondo del lavoro – soprattutto giovani – vivono in condizioni di precarietà, contratti “temporanei”, “posti fissi” sempre vantati come traguardo, questo romanzo si inserisce come specchio critico: cosa significa oggi lavorare, essere utili, essere riconosciuti?
Il titolo originale Oposición gioca su più significati: da un lato la prova selettiva per il posto stabile, dall’altro l’atto del “mettersi in opposizione”, il darsi un margine di non conformità. E poi l’idea di “opposizione” come antagonismo all’interno di uno stesso sistema — la protagonista vs il sistema.
Il contesto del lavoro interinale, dell’attesa del concorso, della precarietà diventa così il palcoscenico per interrogarsi sul valore del lavoro, sulla libertà, sull’identità. Non è tanto un romanzo “sul lavoro” nel senso classico, ma un romanzo sulla condizione umana nel contesto del lavoro. Se siete interessati ad opere che esplorano questo tema, vi rimando alla sezione Tema lavoro.
Al di là del facile paragone con Kafka, mi ha ricordato un po’ il José Saramago di Tutti i nomi ma anche Paolo Cognetti con il suo Sofia si veste sempre di nero per la capacità di illuminare la dimensione grigia e ordinaria della vita. Mesa, però, ha una cifra propria: meno allegorica di Kafka e Saramago, più radicata nel reale, con un realismo che sa farsi straniante e ironico, e con una sensibilità femminile contemporanea che mette in primo piano precarietà, lavoro e resistenza individuale.

Sara Mesa, nata a Madrid nel 1976, è una pluripremiata autrice di racconti e romanzi.
Ha pubblicato Cuatro por cuatro, finalista del premio Herralde, Cicatrice (Bompiani, 2017), Un incendio invisible, Cara de pan, la raccolta di racconti Mala letra e la novella Silencio administrativo.
Con La Nuova Frontiera ha pubblicato i romanzi Un amore, libro dell’anno per i maggiori supplementi letterari spagnoli e finalista al Premio Strega Europeo, e La famiglia.


Mi è piaciuto La Famiglia, poi ha iniziato a stancarmi. M’infastidiscono i suoi personaggi
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Pensi sia dovuto alla scrittura o al loro agire?
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un po’ per tutto, ma soprattutto per come agiscono. Comunque sono sempre ben caratterizzati
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