Nella carne, di David Szalay, Adelphi 2025, traduzione di Anna Rusconi, pp. 330

Nella carne (Flesh) di David Szalay ha conquistato il Booker Prize 2025  imponendosi su una shortlist considerata tra le più solide degli ultimi anni. La giuria ha parlato di un romanzo “singolare, implacabile, impossibile da paragonare ad altri”, premiandone il coraggio formale e la capacità di raccontare l’Europa contemporanea attraverso una voce asciutta e profondamente innovativa. La vittoria ha consacrato Szalay come uno degli autori più rilevanti della narrativa europea, confermandone il ruolo di osservatore lucido delle tensioni culturali e sociali del nostro tempo.

Con Nella carne, David Szalay firma il suo romanzo più maturo e disturbante, un’opera che attraversa tre decenni di storia europea seguendo la traiettoria opaca e silenziosa di István, ragazzo cresciuto in un complesso residenziale ungherese destinato, nel corso degli anni, a scalare la piramide sociale fino a ritrovarsi nelle stanze riservate dell’élite londinese.
Non c’è eroismo in questo percorso: c’è un corpo che procede, che inciampa, che desidera, che resiste. C’è una vita che accade più di quanto venga raccontata.

La forza del romanzo sta nel modo in cui Szalay rifiuta ogni tentazione di psicologia esplicita. István non pensa ad alta voce, non si confessa, non cerca giustificazioni. I suoi anni passano in ellissi vertiginose: dall’adolescenza segnata da un episodio traumatico, alla detenzione giovanile, a un servizio militare appena intravisto, fino alla migrazione verso un Occidente che promette molto e restituisce poco.
La sua è una traiettoria fatta di spostamenti più che di riflessioni, di gesti più che di parole. E proprio questo silenzio — così radicale — diventa il vero motore della storia.

Szalay conferma il suo talento per la prosa asciutta, chirurgica, priva di fronzoli. Ogni capitolo è un colpo di luce: breve, netto, a volte brutale.
Il romanzo vive di quello che non dice, di ciò che rimane fuori campo, dei vuoti che il lettore è costretto a colmare. È un minimalismo che non tranquillizza, anzi: rende ogni scena più tagliente, ogni decisione più ambigua.
La carne del titolo — flesh — non è metafora poetica ma materia narrativa: tutto, in questo libro, parte dal corpo e ritorna al corpo.

Al centro della storia c’è la costruzione della mascolinità in un’epoca che non offre più modelli stabili. Il desiderio è un campo minato, la violenza un sottofondo costante, l’ascesa sociale un percorso che promette emancipazione ma spesso produce alienazione.
István passa dai margini dell’ex blocco sovietico al cuore del capitalismo globale e scopre che, in fondo, la distanza tra miseria e ricchezza può essere minima, ma la distanza tra intimità e identità è enorme.
Szalay osserva tutto con un’attenzione quasi sociologica ma senza mai cedere alla tesi: lascia che siano le superfici — un volto, un gesto, un silenzio — a parlare.

David Szalay è un autore fuori dagli schieramenti. Nato a Montréal, cresciuto in Inghilterra, con radici ungheresi e una vita trascorsa tra vari paesi europei, Szalay incarna già di per sé l’idea di un’Europa fluida e fratturata.
Dopo opere molto apprezzate dalla critica, tra cui Tutto quello che è un uomo (finalista al Booker 2016)  e Turbolenza (entrambi editi da Adelphi), con Nella carne compie un passo ulteriore: scrive un romanzo unitario, compatto, più narrativo ma non meno radicale.
La sua è una voce che sfugge alle mode della narrativa anglofona contemporanea: niente ironia addomesticante, niente compiacimento stilistico, niente psicologismi.
Szalay sembra invece interessato a una domanda più profonda: cosa resta dell’individuo quando tutto ciò che gli accade non può più essere spiegato, soltanto vissuto?

Nella carne è un libro duro, ellittico, a tratti spiazzante, folgorante. Ma è anche uno dei ritratti più intensi della condizione europea degli ultimi decenni: l’idea che il corpo sia l’unica verità stabile in un mondo che cambia troppo in fretta.
La vittoria del Booker Prize non premia solo una storia ben costruita: riconosce la forza di uno sguardo che, con coraggio e sottrazione, interroga ciò che spesso preferiamo non vedere.

Qui potete leggere l’incipit.

David Szalay è nato a Montréal nel 1974 da madre canadese e padre ungherese. La sua famiglia si è poi trasferita a Beirut. Fu costretta a lasciare il Libano dopo l’inizio della guerra civile libanese. Szalay si trasferì quindi a Londra, dove frequentò la Sussex House School e studiò all’Università di Oxford. Dopo aver lasciato l’università, Szalay svolse vari lavori nel settore delle vendite a Londra. Si è trasferito a Bruxelles e poi a Pécs, in Ungheria, per perseguire la sua ambizione di diventare scrittore. Vive a Budapest, con la moglie e due figli.