Un cuore in rovina, di Sunjeev Sahota, Astoria 2025, traduzione di Cecilia Vallardi, pp. 320
Con Un cuore in rovina, Sunjeev Sahota torna a esplorare il territorio che più gli appartiene: quello in cui le vite individuali si intrecciano con le forze sociali, politiche ed emotive che le sovrastano. Dopo L’anno dei fuggiaschi e La stanza delle mogli, lo scrittore britannico di origini indiane firma un romanzo intenso, inquieto, capace di attraversare traumi personali e tensioni collettive con una delicatezza che lascia il segno. Qui, più che mai, Sahota racconta ciò che resta dopo che un’esistenza è stata spezzata — e cosa succede quando qualcuno tenta, forse troppo tardi, di darle di nuovo un senso.
Un passato che non smette di bruciare
Il romanzo ruota attorno a Nayan Olak, un uomo anglo-indiano stimato, in corsa per diventare il primo leader non bianco del più grande sindacato britannico. È una figura pubblica solida, disciplinata, rigida nella propria immagine di integrità. Eppure, sotto questa superficie ordinata, vive una ferita mai rimarginata: l’incendio che vent’anni prima ha distrutto il negozio dei suoi genitori, uccidendo la madre e il figlio. Una tragedia che la comunità ricorda in modo frammentario, ma che Nayan ha sempre percepito come una colpa personale.
L’equilibrio faticosamente raggiunto vacilla quando nella sua vita ricompare Helen Fletcher, una donna legata al suo passato, custode di un segreto che minaccia di alterare per sempre la narrazione pubblica e privata di Nayan. La sua presenza riapre ferite che lui aveva sepolto sotto strati di disciplina.
Parallelamente, sul fronte pubblico, Nayan affronta l’avanzata di una giovane sfidante politica, portatrice di un’agenda più radicale e di una visione di giustizia sociale che mette in discussione ogni sua certezza. È il mondo che cambia, che incalza, che non vuole più aspettare.
Personaggi: un coro di ferite e tensioni morali
Nayan: l’uomo diviso
La sua corsa alla guida del sindacato è descritta come una scalata morale prima che politica: ogni passo che compie nella sfera pubblica genera una frattura nella sua vita privata, come se l’avanzare verso il potere rendesse sempre più evidente ciò che ha perso e ciò che ha cercato di dimenticare.
Nayan è un protagonista che vive nella frattura tra ciò che è e ciò che deve essere. Uomo che ha dedicato la vita alla disciplina e al controllo, si trova improvvisamente esposto, costretto a guardare le zone d’ombra che ha sempre evitato. La sua corsa alla leadership diventa specchio di una crisi più profonda: il timore che ogni sua vittoria sia costruita su fondamenta marce.
Helen: il ritorno che riapre tutto
Il suo segreto — legato all’incendio, legato alla loro storia, legato al senso profondo del fallimento — non è uno stratagemma narrativo: è il nodo che tiene insieme tutto il romanzo. Tra lei e Nayan scorre un’intimità fatta di parole non dette, di tenerezze interrotte, di una vicinanza che non trova mai forma definitiva. Nayan sembra cercare in Helen la possibilità di essere visto per ciò che è davvero, non per ciò che mostra. Helen, dal canto suo, cerca forse un perdono impossibile o l’occasione di restituire una verità che ha taciuto troppo a lungo. Ogni incontro tra loro è carico di tensione emotiva: la vicinanza è sempre sul punto di diventare confessione, ma si arresta un attimo prima.
È in quello spazio vuoto, in quell’impossibilità di pronunciare la verità, che il romanzo trova una delle sue forze narrative maggiori.
Brandon, il figlio di Helen, porta nel romanzo una ferita tutta sua: la falsa accusa di razzismo subita mentre lavorava come cuoco in una scuola privata londinese. È un episodio che lo spezza e lo isola, e che segna in profondità anche Helen, costringendola a interrogarsi sul senso di ingiustizia che continua a propagarsi attraverso le generazioni. È proprio questo trauma a spingerla a lasciare Londra e tornare a Chesterfield, il luogo che aveva giurato di non rivedere più, pur di offrire al figlio un rifugio, un punto di ripartenza. Ma quel ritorno è anche un ritorno verso il proprio dolore, verso l’incendio, verso Nayan. Brandon diventa così il detonatore silenzioso di un passato che torna a chiedere conto a tutti: un personaggio che, pur orbitando ai margini della trama centrale, ne rivela le linee di fragilità più profonde.
La sfidante politica: il futuro che pretende ascolto
Megha, la giovane candidata che contrasta Nayan nel sindacato, è il simbolo del nostro tempo: determinata, lucida, impaziente. Non è il “nemico”, ma una forma alternativa di verità. La sua presenza mette in crisi non solo la carriera di Nayan, ma la sua intera visione del mondo. Rappresenta ciò che Nayan ha sempre voluto ignorare: che il cambiamento non chiede il permesso per avanzare.
La famiglia attuale di Nayan vive sotto il peso di un passato che nessuno osa nominare. La comunità della città natale, invece, è il vero archivio vivente della tragedia: ricorda, distorce, custodisce. È una presenza costante, una memoria collettiva che osserva e giudica. I colleghi del sindacato – prima tra tutti Lisa-Marie, i testimoni del passato, gli amici, i conoscenti: ognuno di loro aggiunge un frammento, una sfumatura, un tassello nella complessa geografia morale del racconto. Sahota li usa con precisione chirurgica: brillano per poche pagine, ma lasciano ferite reali.
Uno degli aspetti più raffinati del romanzo è la presenza della voce narrante, una sorta di scrittore-osservatore che ricostruisce gli eventi senza mai esserne completamente padrone.
Questa voce esterna — empatica, ma non onnisciente — crea un effetto di distanza intima: è vicina ai personaggi, ma abbastanza lontana da percepirne tutte le zone d’ombra.
Il narratore diventa così il terzo vertice nel rapporto tra Nayan ed Helen, colui che tenta di trasformare la loro rovina in un racconto comprensibile.
Temi: identità, colpa, politica, memoria
In Un cuore in rovina, Sunjeev Sahota intreccia i temi con una naturalezza che rende difficile separarli: ogni filo conduce inevitabilmente all’altro, come se le vite dei personaggi fossero tessute in un’unica stoffa, fragile e logorata. L’identità, per Nayan, non è mai un dato stabile, ma un terreno in cui razza, classe, origine e ambizione si scontrano in silenzio. È un uomo che ha imparato a muoversi con disciplina all’interno di un paese che lo accoglie e lo respinge allo stesso tempo; che lo premia, ma solo fino al punto in cui non mette in crisi gli equilibri consolidati. Il suo volto pubblico, curato fino al dettaglio, è una corazza necessaria, una forma di sopravvivenza.
Attorno a questa identità fragile eppure combattiva si avvolge il tema della colpa, che Sahota non tratta come un evento puntuale, ma come un’eredità che attraversa le generazioni. La tragedia dell’incendio, il dolore per una famiglia distrutta, il peso dei ricordi distorti dalla distanza: tutto ciò modella il carattere di Nayan e ne detta ogni movimento. La colpa non è solo ciò che è accaduto, ma ciò che non è stato mai affrontato. Un silenzio che parla più di qualsiasi confessione.
La politica, che potrebbe apparire semplice scenografia, diventa invece il palcoscenico su cui queste tensioni interiori si trasformano in azione. La campagna sindacale, gli scontri ideologici con la giovane candidata Megha, il ruolo pubblico di Nayan: tutto è inseparabile dal suo dramma personale. Sahota mostra con lucidità come ogni scelta politica sia anche un gesto emotivo, una risposta al bisogno di essere visti, riconosciuti, perdonati. La politica è qui un’eco del privato, un campo di battaglia in cui Nayan tenta di costruire un equilibrio che la sua storia personale gli nega.
E poi c’è la memoria, vera protagonista sotterranea del romanzo. Una memoria che non illumina ma inganna, che non consola ma apre continuamente nuove ferite. Sahota la descrive come un archivio imperfetto, un territorio ambiguo in cui convivono verità, omissioni, distorsioni volontarie o necessarie. È la memoria dei personaggi, ma anche quella della comunità, che ricorda e giudica, protegge e danneggia. Ed è soprattutto la memoria che un narratore esterno tenta di ricostruire, consapevole che ogni versione della verità è sempre una forma di perdita.
In questo intreccio in cui identità, colpa, politica e memoria si inseguono senza mai completarsi davvero, Un cuore in rovina trova la sua voce più autentica: quella di un romanzo che non cerca soluzioni, ma che racconta, con rara precisione emotiva, il modo in cui le nostre vite continuano a pulsare attorno a ciò che non abbiamo mai avuto il coraggio di dire.
La scrittura di Sahota in Un cuore in rovina è tesa, misurata, calibrata al millimetro. Ogni frase sembra trattenere il respiro, come se lo stesso linguaggio avvertisse il peso emotivo della storia che sta raccontando. L’autore alterna scene di grande nitidezza realistica a passaggi più introspettivi, quasi sospesi, in cui il tempo si dilata e la voce narrante si incunea nelle crepe dei personaggi. La sua prosa non indulge mai nell’enfasi, e proprio questa sobrietà dà forza ai momenti di maggiore intensità. Sahota costruisce significati attraverso omissioni, ellissi, dettagli minimi che rivelano più delle confessioni esplicite. È una lingua che accarezza e incide allo stesso tempo, confermando la sua cifra stilistica: raccontare il tumulto umano attraverso forme narrative controllate, quasi trattenute, ma capaci di lasciare una risonanza lunga, persistente, ineludibile.
Con Un cuore in rovina, Sunjeev Sahota prosegue con coerenza e maturità il percorso narrativo iniziato con L’anno dei fuggiaschi (vedi la mia recensione) e approfondito in La stanza delle mogli. Se nel primo romanzo esplorava le geometrie del dolore migrante e la precarietà di chi vive ai margini, e nel secondo indagava le prigioni — sociali, familiari, affettive — in cui la tradizione può rinchiudere le vite, qui Sahota porta lo sguardo ancora più in avanti: verso le contraddizioni del presente, dove identità, potere e memoria si intrecciano fino a diventare indistinguibili.
Un cuore in rovina eredita dai romanzi precedenti la sensibilità verso chi è intrappolato in forze più grandi di sé; ma allo stesso tempo mostra un autore più deciso, più politico, meno disposto a nascondere le fratture del reale dietro la grazia della narrazione. Sahota non si limita a raccontare un trauma antico o una fuga impossibile: mette in scena personaggi che lottano dentro sistemi sociali complessi, che si scontrano con le aspettative della comunità, che provano a essere liberi senza sapere davvero cosa questo significhi.
E il romanzo, nel suo insieme, è proprio questo: una domanda radicale sulla possibilità di salvarsi — come individui e come società — quando il cuore è già andato in pezzi.
Più cupo di La stanza delle mogli, più intimo e meno epico de L’anno dei fuggiaschi, questo libro segna un punto di svolta nella scrittura di Sahota: un’opera che non cerca la catarsi, ma la verità emotiva. Ed è forse per questo che resta addosso così a lungo.
Qui potete leggere l’incipit del romanzo.

Sunjeev Sahota è l’acclamato autore di Ours Are the Streets, dell’Anno dei fuggiaschi (candidato al Booker Prize 2015 e all’International Dylan Thomas Prize, e vincitore dell’Encore Prize, del South Bank Sky Arts Award e dello European Union Prize for Literature), della Stanza delle mogli (candidato al Rathbones Folio Prize, al Booker Prize 2021, all’Ondaatje Prize e al Walter Scott Prize for Historical Fiction) e di Un cuore in rovina. Fa parte della Royal Society of Literature, e la rivista Granta lo ha definito uno dei migliori giovani narratori inglesi. Sunjeev Sahota è nato nel 1981 nel Derbyshire, Inghilterra. Vive a Sheffield e insegna alla Durham University.


Sempre cose leggere vedo. Soprattutto allegre
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Che ci vuoi fare, mi piacciono i drammi 😉
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