La vedova di Hong Kong, di Kristen Loesch, Marsilio 2025, traduzione di Isabella Zani, pp. 368
La vedova di Hong Kong, secondo romanzo di Kristen Loesch, si colloca nel territorio della narrativa storica ibridata con elementi gotici e soprannaturali, un ambito in cui l’autrice dimostra di muoversi con padronanza tecnica e notevole consapevolezza dei dispositivi retorici del genere. Ambientato tra la Shanghai post-rivoluzionaria e la Hong Kong degli anni ’50, il romanzo ricostruisce non solo un contesto socio-politico, ma anche un immaginario emotivo e simbolico in cui la memoria individuale e quella collettiva dialogano continuamente. Una narrazione ispirata alle leggende cinesi e alla storia vera della sua famiglia
La vicenda ruota attorno a Mei, già anziana, che ora vive a Seattle; Mei decide di tornare a Hong Kong per accompagnare la figlia Susanna, reduce da un lutto non ancora superato, e per risolvere i fantasmi del passato legati a una misteriosa vicenda di delitti e vendetta avvenuta nel 1953.
La giovane Mei, allora esule da Shanghai, e approdata a Hong Kong, alla Bottega delle Rarità di Madame Volkova, porta da allora con sé un trauma legato all’uomo che controllava la sinistra Maidenhair House. Il romanzo alterna due linee temporali: il passato del 1953, in cui Mei partecipa a una competizione tra medium nell’isolata villa, e il presente, in cui la protagonista anziana ritorna con la figlia per decifrare ciò che realmente avvenne durante quelle sei notti in cui si svolse una gara tra medium.
La struttura, seppur non rigidamente polifonica, adotta un’oscillazione costante tra memoria e racconto, che ricorda certi dispositivi tipici della narrativa gotica contemporanea (si pensi a Sarah Waters o a Shirley Jackson), i quali permettono a Loesch di mantenere un’ambiguità sistematica: ciò che viene ricordato è autentico o filtrato dalla rielaborazione del trauma? Il romanzo non cerca di dissolvere questo dubbio, ma lo utilizza come motore interpretativo.
L’opera appartiene a un incrocio di generi: è un thriller storico, per la ricostruzione accurata della transizione tra Cina continentale e Hong Kong coloniale; così come un romanzo gotico, per l’uso dello spazio chiuso, della casa come luogo di proiezione psichica e della suspense costruita per sottrazione; il tutto contaminato con il mistero soprannaturale, con la presenza di medium, sedute spiritiche e manifestazioni ambigue degli spiriti.
La scrittura di Loesch è caratterizzata da una prosa densa e visiva, spesso calibrata più sulla suggestione che sulla descrizione diretta. La ripetizione di motivi simbolici – la carta, il fuoco, la voce degli antenati – crea una grammatica interna che fa del romanzo una sorta di rituale narrativo, coerente con i temi della morte e della memoria.
Hong Kong è rappresentata come soglia: geograficamente e culturalmente liminare, sospesa tra modernità e superstizione. La città è spazio di fuga e reinvenzione, ma anche di rimozione. La Maidenhair House, invece, è un dispositivo narrativo in sé: un luogo che inscrive il potere maschile, la violenza, e allo stesso tempo la fragilità dei suoi stessi confini. L’architettura dell’edificio – corridoi, stanze chiuse, pareti che sembrano ascoltare – è trattata secondo la tradizione del romanzo gotico, in cui lo spazio non descrive ma agisce.
Mei è una protagonista stratificata: artigiana, madre, sopravvissuta, medium riluttante. La sua psicologia è costruita attraverso ellissi e omissioni, in un percorso che rispecchia la sua incapacità di nominare apertamente il trauma. La sua arte – la creazione di figure di carta – funge da metafora della sua identità, fragile ma potenzialmente trasformativa.
Madame Volkova, figura liminale tra mecenate e mentore, rappresenta l’ambivalenza del mondo esoterico, mentre la diva del cinema muto incarna il legame tra spettacolo, illusione e dissimulazione. George Maidenhair, vera presenza occlusiva del romanzo, è volutamente opaco: più che un personaggio è un potere, un’ombra, una minaccia sistemica che Loesch mantiene sfuggente per non normalizzarne la violenza.
Il romanzo esplora diversi nuclei tematici: il trauma e la sua trasmissione intergenerazionale, l’esilio e lo sradicamento, il rapporto tra memoria e invenzione, la violenza maschile come architettura del silenzio, la materia come simbolo (la carta come corpo, la casa come psiche, il fuoco come purificazione). La presenza del soprannaturale non ha funzione decorativa, bensì epistemologica: è una modalità alternativa con cui le donne della storia si riappropriano di ciò che non possono dire a voce.
Nel segmento conclusivo, quando Mei ritorna a Hong Kong ormai anziana, il romanzo raggiunge la sua soglia interpretativa più delicata. L’indagine sul passato non mira tanto a ricostruire un fatto di cronaca quanto a riarticolare la verità emotiva di ciò che avvenne alla Maidenhair House.
Il momento chiave della rivelazione riguarda la notte del 1953: Mei non solo affrontò la competizione tra medium, ma fu costretta a confrontarsi direttamente con George Maidenhair, il quale tentò di esercitare su di lei lo stesso potere violento già subito anni prima. L’incendio che distrusse la villa non fu, come raccontato per decenni, un incidente legato a una seduta spiritica fallita: fu Mei stessa a provocarlo, in un gesto estremo di difesa e liberazione. Le morti che ne seguirono – incluso lo stesso George – furono una conseguenza di quella scelta.
Il punto rilevante è che il romanzo non chiarisce mai del tutto quanto del soprannaturale presente durante quelle notti fosse reale e quanto proiezione psicologica. Le manifestazioni spiritiche potrebbero essere delle autentiche epifanie o delle allucinazioni generate dallo stress o ancora delle rappresentazioni simboliche del conflitto interiore di Mei. La narrazione, volutamente ambigua, rifiuta la distinzione rigida tra le tre opzioni.
Nel presente, Mei confessa alla figlia ciò che è avvenuto, ma non cerca assoluzione: ciò che desidera è che qualcuno condivida il peso della memoria, affinché non si trasformi in colpa ereditaria. Il finale, dunque, non propone una chiusura lineare, bensì un atto di trasmissione consapevole, che rompe il ciclo della rimozione e permette alla protagonista di riconoscere la propria identità non più come sopravvissuta, ma come agente.
Possiamo allora dire che il romanzo si chiude su due livelli: sul livello strettamente narrativo l’enigma della casa è sciolto, la verità riconsegnata, il cerchio temporale completato. A livello simbolico l’ultimo gesto di Mei è un passaggio di testimone, un modo per trasformare la memoria da ferita a genealogia.
Il finale ribadisce che l’orrore maggiore non è il soprannaturale, ma la violenza umana e il silenzio che la circonda; e che la conoscenza, anche quando destabilizzante, è l’unica forma possibile di liberazione.
Per affinità tematiche e soluzioni formali, La vedova di Hong Kong può essere accostato alla tradizione del gotico psicologico femminile, in cui il perturbante non è mero artificio ma linguaggio del trauma: in questo senso Loesch dialoga idealmente con Shirley Jackson, soprattutto per l’uso della casa come estensione della psiche (Hill House come antenata ideale della Maidenhair House). Allo stesso tempo, la combinazione di storia, memoria diasporica e soprannaturale richiama le atmosfere di Yangsze Choo, il cui immaginario orientale sospeso tra vita e aldilà costituisce un precedente significativo. Il romanzo condivide inoltre con Le sette morti di Evelyn Hardcastle di Stuart Turton l’impiego della villa isolata come “camera nera” delle identità, mentre la scrittura ritmica e simbolica avvicina Loesch alla sensibilità di autrici come Sarah Waters, che sfruttano la suspense gotica come strumento interpretativo del potere e delle sue distorsioni. Pur inscrivendosi in questa costellazione, Loesch ne riformula i codici attraverso una prospettiva sinocentrica e un’attenzione particolare alla trasmissione intergenerazionale della memoria, aggiungendo una dimensione storica e affettiva che stacca il romanzo dai suoi modelli e ne fa un caso peculiare nel panorama del gotico contemporaneo.
Kristen Loesch è cresciuta a San Francisco. Laureata in Storia, ha poi conseguito un master in Studi slavistici all’Università di Cambridge. La bambola di porcellana è il suo romanzo d’esordio, da cui verrà anche tratta una serie tv. Vive sulla costa ovest degli Stati Uniti con il marito e i tre figli.


Sto leggendo Mexican ghotic. Credo che anche questo libro finirà nella lista.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Se ti piace il genere, anche questo merita 👍🏻👍🏻
"Mi piace"Piace a 1 persona
Grazie
"Mi piace"Piace a 1 persona
Che lettura affascinante… questo intreccio di memoria, trauma e gotico psicologico sembra lavorare proprio nelle zone d’ombra dove i romanzi diventano potenti. Mi ha colpita soprattutto l’idea della casa come mente che parla. Direi che finisce dritto in lista
"Mi piace"Piace a 3 people
Una lettura inquietante sotto molti punti di vista 👍🏻
"Mi piace"Piace a 1 persona