INCIPIT
Lazare
Lazare Lonsonier leggeva nella vasca da bagno quando la notizia della Prima guerra mondiale giunse in Cile. All’epoca aveva preso l’abitudine di sfogliare la stampa francese a dodicimila chilometri di distanza, immerso in un’acqua profumata con scorze di limone, tanto che in seguito, tornato dal fronte mutilato di mezzo polmone e di due fratelli, morti nelle trincee della Marna, non poté mai più scindere l’odore degli agrumi da quello delle granate.
Stando ai racconti di famiglia, molti anni prima suo padre era fuggito dalla Francia con trenta franchi in una tasca e un ceppo di vite nell’altra. Nato a Lons-le-Saunier, sulle colline del Giura, l’uomo possedeva un vigneto di dei ettari quando la fillossera si diffuse distruggendo tutte le sue piante e mandandolo in rovina. In pochi mesi, e dopo ben quattro generazioni di viticoltori, alle pendici dei versanti non gli rimase altro che qualche melo rinsecchito e delle piante selvatiche da cui estraeva un triste assenzio. Lasciò quel paese di calcare e cereali, di spugnole e noci, per imbarcarsi su una nave di ferro che partiva da Le Havre in direzione della California. Dato che il canale di Panama non era ancora aperto, dovette circumnavigare il Sud America e doppiare Capo Horn, viaggiando per quaranta giorni in stive invase da gabbie di uccelli con altri duecento uomini ammassati che suonavano fanfare talmente rumorose da impedirgli di chiudere occhio fino alle coste della Patagonia.
Una sera, mentre si aggirava come un sonnambulo tra le cuccette, vide nella penombra una vecchia seduta su una sedia di vimini, le braccia ricoperte di braccialetti, le labbra gialle e la fronte tatuata di stelle. La donna gli fece segno di avvicinarsi.
«Non riesci a dormire?» gli chiese.
Poi estrasse dal corpetto una piccola pietra verde, non più grande di una perla di agata, punteggiata di minuscole e scintillanti cavità.
«Sono tre franchi» gli disse.
Pagò e la vecchia fece bruciare la pietra sopra un guscio di tartaruga che gli agitò sotto il naso. Il fumo gli diede subito alla testa tanto che credette di svenire. Quella notte cadde in un sonno letargico, lungo quarantasette ore, durante il quale sognò vigne dorate abitate da creature marine. Quando si svegliò vomitò tutto quello che aveva nello stomaco e il suo corpo gli sembrò talmente pesante che non riuscì ad alzarsi dal letto. Non seppe mai se fu per via dei fumi della vecchia gitana o per l’odore mefitico delle gabbie di uccelli, ma mentre la nave attraversava le cattedrali di ghiaccio dello stretto di Magellano precipitò in uno stato di febbre delirante accompagnata da allucinazioni, e la sua pelle si ricoprì di macchie grigie, quasi fosse sul punto di ridursi in cenere. Al capitano, che aveva imparato a riconoscere i primi segni della magia nera, bastò un’occhiata per intuire le avvisaglie di un’epidemia.
«È febbre tifoide» dichiarò. «Al prossimo scalo lo faremo scendere».
E così, in piena guerra del Pacifico, l’uomo sbarcò a Valparaíso, in Cile, un paese che non era neanche in grado di collocare sulla cartina e del quale ignorava completamente la lingua.
Miguel Bonnefoy

