INCIPIT
DITA
Apro gli occhi di colpo e vedo le sue dita. Le esamino una per una, sono ben in carne e grinzose, hanno unghie rigate e un unico anello d’argento; il pollice, che termina con un artiglio spesso e nero, porta il segno di un taglio che lo ha quasi reciso; mi chiedeva di accorciarglielo, quell’artiglio che a me non è mai sembrato così anomalo, ma non ci si riusciva nemmeno con il tronchesino più grosso e allora lei, ogni volta, scuoteva la testa, “Basta, prova con il coltello”, mi diceva, e a quel punto, d’improvviso, un coltellino compariva davvero, saltato fuori da chissà dove, ma io non mi azzardavo a usarlo e tagliavo con le forbicine tutte le unghie sane lasciando a lei il compito di occuparsi di quella spessa e nera che spuntava dal pollice deformato.
Nella stanza all’ultimo piano del dormitorio universitario, mi alzo dal mio letto a una piazza e, a piedi nudi sul parquet nella mia lunga camicia da notte, guardo la neve che scende al di là della finestra; tutto d’un tratto, mentre fisso la neve e il buio, quell’unghia nera e ricurva mi ricompare davanti. La vedo con chiarezza e mi assalgono i rimorsi. Torno a letto, il chiacchiericcio degli studenti cinesi in cucina si dissolve, la fragorosa musica della mia vicina di stanza nigeriana si affievolisce e io continuo a rigirarmi oppressa dal senso di colpa.
Jokha Alharthi

