Il mestiere di leggere. Blog di Pina Bertoli

Letture, riflessioni sull'arte, sulla musica.

Tutti i nostri segreti

INCIPIT

HÜSEYIN

Hüseyin… lo sai chi sei, Hüseyin, quando scorgi i contorni luccicanti del tuo viso sul vetro della portafinestra? Quando apri la porta, esci sul balcone e l’aria calda ti accarezza il viso, e il sole che tramonta in mezzo ai tetti dei caseggiati di Zeytinburnu risplende come un’arancia gigantesca? Ti stropicci gli occhi. Forse, ti dici, forse ogni ostacolo e ogni dilemma che hai affrontato nella vita è servito solo a far sì che un giorno potessi startene quassù con questa certezza: me lo sono guadagnato. Con il sudore della fronte.
Senti il primo ezan della sera dal balcone del tuo appartamento, lo spazioso trilocale +1 al quarto piano per cui hai lavorato e risparmiato per quasi trent’anni, mentre crescevi quattro figli e garantivi a tua moglie un’esistenza modesta, certo, ma pur sempre dignitosa. Hai vissuto le tue giornate in tre turni, Hüseyin, ti sei fatto tutte le domeniche e i festivi e gli straordinari, cercando di incassare ogni maggiorazione possibile alla fonderia, per mandare avanti la famiglia, per comprare le scarpette da calcio al più piccolo, per saldare i debiti del grande, per mettere due soldi da parte. E adesso finalmente ce l’hai fatta. Hai cinquantanove anni e una casa di proprietà. Tra un paio d’anni, quando Ümit avrà finito la scuola e tu finalmente potrai lasciare la Germania, quel paese freddo, senza cuore, ci sarà questo appartamento a Istanbul con il tuo nome sul campanello. Hüseyin! Finalmente hai trovato un posto che puoi chiamare casa.
Goditelo, Hüseyin. Senti come la musica chiassosa dei negozi nella via sotto di te di colpo tace, e restano solo l’ezan e i clacson e le voci di milioni di persone che continuano ad aggirarsi per le strade per sbrigare le proprie faccende. Ascolta le grida dei gabbiani in lontananza. Inspira a fondo l’aria umida che sa di gas di scarico e immondizia, lascia pure che lo sguardo indugi ancora qualche istante sul brulichio laggiù tra le case, prima di andare a pregare.
Guarda, dall’altra parte della strada hanno aperto un ristorante di lahmacun della catena di İbrahim Tatlıses. Un tempo le sue canzoni ti piacevano tantissimo, Hüseyin, ti eri comprato un disco, ogni sera all’alloggio operaio stappavi una Kristallweizen, al sibilo della birra seguiva il fruscio del giradischi, il bağlama all’inizio di Tükendi Nakti Ömrüm. Ricordi, Hüseyin? Fumavi così tante sigarette ascoltando quel pezzo che ti dissolvevi in un’unica nuvola bianca nella piccola cucina in fondo al corridoio, quel lungo corridoio buio. Ibo riusciva a toccarti, perché le sue canzoni parlavano di tutta quella gente di cui nessuno si curava, gente di campagna, povera, bruna, che lavora sodo, quelli come te, Hüseyin. E poi anche lui si era disfatto della lingua dei suoi genitori come fosse un inutile sacco di pietre.
Ora invece non lo sopporti più, anzi, Ibo ti disgusta, come zompetta qua e là nella sua trasmissione del venerdì sera e tutte le scemenze che dice e quel suo modo di fissare le ballerine di danza del ventre, un essere spregevole che ha fatto sparare a un semplice mercante di Urfa perché si rifiutava di servirlo. O almeno così dicevano i giornali. No,
Hüseyin, con tutto il bene, non vuoi mica comprare e ascoltare le cassette di uno così. E poi Ibo è passato dalla musica tradizionale all’arabesk, e tu hai giurato ormai da un pezzo di farla finita con l’alcol e il tabacco, ma senza alcol l’arabesk è difficile da sopportare. E comunque cosa potrebbero darti, oggi, le canzoni di un tizio del genere? Uno che picchia le sue donne e per di più se ne vanta in pubblico? Niente. Ma Perihan e Hakan e Ümit resteranno senz’altro colpiti da quel ristorante. Appartiene all’uomo più famoso del paese, e tu non avrai niente da ridire, Hüseyin, quando i tuoi figli andranno ad abbuffarsi di quella roba ogni giorno.
Anzi, vorrai essere tu a pagare il conto, li guarderai mangiare tranquillo e sarai felice perché finalmente puoi permettere loro di trascorrere ogni estate a Istanbul, questa splendida città per cui nei secoli tante guerre sono state combattute, tanto sangue è stato versato, e tutto invano. Perché nessuno ha capito che questa città non si lascerà mai conquistare, da nessuno. Alla fine è sempre lei a conquistare te. Alla fine non sarai altro che l’ennesimo strato di polvere ai piedi di nuovi conquistatori con le solite smanie, e Istanbul si prenderà anche loro, li inghiottirà e li ridurrà in polvere e se ne nutrirà, accrescendo sempre più il suo fulgido splendore.
Tu lo sapevi, Hüseyin, che un giorno saresti tornato a Istanbul, già dalla prima volta che ci sei venuto. Allora eri arrivato in treno dal villaggio ed eri rimasto una settimana dai parenti, prima di prendere l’autobus e poi di nuovo il treno per il Sud della Germania, dove ti avrebbero assegnato un posto di lavoro. Ti fecero mettere in fila con altri lavoratori, ispezionarono i vostri corpi nudi e vi guardarono nelle mutande. Era la primavera del 1971.
La Germania non era ciò che speravi, Hüseyin. Speravi in una nuova vita. Invece ti è toccata la solitudine, che non può mai essere una nuova vita, perché la solitudine è un circolo vizioso, è il costante riaffiorare dei medesimi ricordi, è la ricerca di ferite sempre nuove in versioni di sé scomparse ormai da un pezzo, la nostalgia delle persone da cui ci si è separati. Ma che altro potevi fare, Hüseyin? Non potevi mica tornartene al villaggio. Per cui sei rimasto e hai fatto quello che dovevi affinché la scelta di trasferirsi avesse almeno un senso.

Fatma Aydemir

Recensione