“Ragazza col turbante” Jan Vermeer
“La ragazza con l’orecchino di perla” Tracy Chevalier
“Lo sguardo alle volte può farsi carne, unire due persone più di un abbraccio.” Dacia Mariani
Il protagonista di questo romanzo è lo sguardo: gli occhi che lo indirizzano, il turbamento che suscita quando viene intercettato, il ferire più delle parole, l’indagare, o l’essere assente.
Sono gli occhi del padre di Griet, divenuto cieco per un incidente sul lavoro, ormai non più in grado di vedere cosa gli sta attorno, ad affinare nella giovane figlia, la capacità di spostare gli oggetti facendoli sempre tornare al loro posto, per non disorientarlo. E questa qualità, così legata alla capacità di osservazione, all’abilità di cogliere particolari rivelatori, è proprio ciò che il pittore Vermeer pretende in chi si deve prendere cura del suo atelier. Per un artista è facile cogliere anche in un piccolo particolare, apparentemente insignificante, l’innato senso artistico che l’animo di Griet nasconde:
“Avevo l’abitudine di sistemate le verdure in cerchio, ciascuna in uno spicchio come una fetta di torta. C’erano cinque fette: cavolo rosso, cipolle, porri, carote e rape. Mi ero servita della lama di un coltello per dare la forma a ciascuna fetta, e nel centro vi avevo piazzato una rondella di carota.(…) Non sapevo spiegare perché avessi messo le verdure in quel modo.”
Griet è una sedicenne di rara sensibilità: lo si intuisce subito, dal modo in cui descrive le persone, le loro caratteristiche, o gli ambienti, gli oggetti. Ha uno sguardo preciso, quasi meticoloso, nel non lasciarsi sfuggire anche i minimi dettagli, nel cogliere, attraverso lo sguardo, anche ciò che sta dietro. Ha una profondità d’animo che si manifesta proprio nel modo in cui osserva e incamera ciò che vede, e sente.
“Il viso della donna sembrava un piatto da portata ovale, a tratti scintillante, a tratti opaco. Gli occhi erano due bottoni d’un colore castano chiaro che ben di rado avevo visto accompagnarsi a capelli biondi.” (…) “ L’uomo mi osservava, gli occhi grigi come il mare. Aveva un volto lungo e spigoloso, un’espressione ferma, in contrasto con quella della moglie, che guizzava come la fiammella di una candela”
Gli occhi del pittore, più avanti saranno descritti “grigi come l’interno della conchiglia dell’ostrica.”
Griet si trasferisce come domestica nella casa del pittore dove, oltre ad una serie di faccende domestiche, dovrà prendersi cura dell’ambiente in cui lui dipinge. Per lei è un’esperienza straordinaria, emozionante: vedere il quadro mentre viene concepito e realizzato, la disposizione di oggetti e persone che vengono ritratti per dare vita, sulla tela, alla scena a cui lei assiste in presa diretta. Diversi sono i dipinti che ci vengono descritti, che lei li veda o che le vengano raccontati, come da Tanneke, la domestica ritratta nel dipinto “La lattaia” o che siano evocati, come fa con il padre per la “Veduta di Delft”.
Al suo animo sensibile tutto ciò parla e crea suggestione, generando una immediata sintonia con l’artista, e facendola sentire speciale. Osserva con occhi avidi tutto: gli strumenti di lavoro, – pigmenti, pennelli, tavolozze, – tutto l’affascina e la attira verso l’uomo che, simulando distacco e indifferenza, è invece sempre più attratto dalla sensibilità della giovane, al punto da farla, in segreto, sua assistente.
Griet deve mantenersi in equilibrio su di un filo sottilissimo, tra le fatiche, i dolori personali, le invidie e le insidie che la minacciano via via, così come tra l’attrazione per il pittore, che sa essere destinata a non potersi concretizzare, e i sentimenti che per lei prova il giovane macellaio. E lui, Vermeer, rimane turbato, nonostante palesi indifferenza, fino al punto di volerla ritrarre, creando un capolavoro. Un capolavoro il cui protagonista assoluto è lo sguardo.
Bellissimi i passaggi in cui il quadro prende forma, apparentemente per caso, in realtà rispondendo ad una esigenza interiore che vuole trovare sbocco sulla tela.
«Ti dipingerò come ti vidi la prima volta, Griet. Così come sei.» Le annuncia. E poi dall’idea alla sua realizzazione:
«Cerca qualcosa da metterti in testa, che non ti faccia sembrare né una signora né una domestica» le ordina.
“Estrasse una banda lunga e stretta di stoffa azzurra. “Comunque, vorrei che ti provassi questa.
La osservai. «Non è abbastanza grande per coprirmi la testa.»
«Mettici insieme questa, allora.» Estrasse dal mucchio un pezzo di stoffa giallo con un bordo dello stesso azzurro, e me lo porse.
Riluttante, presi le due strisce di stoffa, mi ritirai nel ripostiglio e mi misi di nuovo davanti allo specchio. Legai la striscia azzurra sulla fronte, e la striscia gialla la girai più volte a coprire la sommità del capo. Infilai l’estremità in una piega di lato, sistemai meglio una piega qua e là, mi spianai bene la stoffa azzurra sulla fronte e rientrai nello studio. (…) Mi rimisi nella posa di prima. Quando girai la testa per guardare da sopra la spalla, lui alzò lo sguardo. In quello stesso momento l’estremità della striscia gialla si sciolse e mi ricadde sulla spalla. «Oh» sospirai, temendo che tutta la stoffa mi scivolasse dalla testa e mettesse a nudo la mia capigliatura. Invece no, fu solo quel lembo di stoffa gialla a penzolare libero.”
Ecco che il quadro prende forma davanti ai nostri occhi, è come se fosse proprio lì davanti. Non sappiamo se andò così davvero, ovviamente, ma è bello pensarlo.
La narrazione sa affascinare il lettore, col suo passo lento e misurato, preciso e inquietante: la bravura dell’autrice sta tutta, per me, nel mantenere in perfetto equilibrio le tensioni, che sembrano non raggiungere mai la superficie, mentre lavorano al di sotto di essa, come una lenta ma travolgente marea.
Dal romanzo è stato tratto il famoso film di Peter Webber, uscito nel 2003, con Colin Firth e Scarlett Johansson. Non era facile affrontare questo romanzo e rendergli giustizia: per me c’è riuscito, soprattutto laddove ha saputo mantenersi fedele alla narrazione dove essa trae la sua forza dal gioco di sguardi, dalle atmosfere, dagli ambienti.
Il dipinto è evocato in una citazione nel film di Wim Wenders “Fino alla fine del mondo” (di cui segnalo la strepitosa colonna sonora, con contributi degli U2, R.E.M., Lou Reed, Depeche Mode, Patty Smith ecc) dove “La ragazza col turbante” è la sorella del protagonista. Nella scena si vede il protagonista di spalle che indossa un apparecchio che riesce a registrare gli impulsi del cervello, a rielaborarli per trasformarli in virtuali visioni per chi è cieco. La posizione della ragazza, con la finestra di lato e la luce che da essa, entrando, la illumina, la fascia azzurra che le cinge il capo, lo sguardo rivolto verso l’uomo, rimandano chiaramente al dipinto di Vermeer.
http://www.neripozza.it/collane_dett.php?id_coll=1&id_lib=277
Per approfondire l’enigmatico artista, vi consiglio la lettura di “Vermeer, la famiglia, la città.” Di John Michael Montias
Per una veloce lettura, potete andare qui: http://www.finestresullarte.info/253n_chi-era-la-ragazza-con-l-orecchino-di-perla-di-vermeer.php#cookie-ok
Bella la frase della Maraini, non la conoscevo. E’ proprio vero, uno sguardo può catturare, turbare, ma anche ferire quando è duro o assente. Interessante il romanzo che proponi, non solo per il fatto che ruoti attorno alla vita del famoso pittore olandese ma anche per la resa descrittiva dell’autrice, minuziosa ma nello stesso tempo suggestiva, come appare dagli estratti che hai pubblicato.
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L’autrice propone una sua visione: si immagina chi potesse essere la ragazza dietro al quadro e la fa vivere, dandole uno spessore, una personalità e costruendo una vicenda totalmente immaginaria ma molto verosimile. Leggendolo, si capisce la sua profonda conoscenza del pittore, dell’ambiente in cui visse, della vira quotidiana; una ambientazione molto aderente e credibile. Molto delicato nella scrittura a rendere, con le parole, gli stati d’animo dei protagonisti.
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Complimenti per il post! Te li faccio sinceramente perché non è facile trovare articoli ben scritti e completi. Quando leggo mi piace soffermarmi, riflettere e devo dirti che sei riuscita a farmi compiere questo mio modo di leggere.
Il libro l’ho letto un anno fa e l’ho trovato realmente interessante; ho letto alcuni estratti anche in classe.
Per quanto riguarda la frase di Dacia Maraini, sono pienamente d’accordo, perché attraverso lo sguardo passa la vita di una persona.
Mio padre, il mio adorato padre cantante lirico e pianista, continuava a dirmi: ” Ricorda piccola, lo sguardo parla più delle parole” E me lo diceva proprio lui che della sua splendida voce aveva fatto il fulcro dell’esistenza.
Ma bastava uno sguardo, per renderci così complici prima di un suo concerto
Complimenti ancora
Adriana Pitacco
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Cara Adriana, ti ringrazio per le tue osservazioni e per la considerazione che mi hai manifestato. La testimonianza che racconta il rapporto con tuo padre è molto bella: grazie per averla condivisa con tutti. Passerò a visitare il tuo blog e a leggerti. A presto! Pina
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