Esistono infiniti modi per ricordare una vita; ma non c’è niente di più fenomenale della memoria sensoriale, la meno bugiarda, se possibile, perché capace di rievocare emozioni imbozzolate nella pura esperienza del piacere o del dispiacere, più che mai quelle infantili. Quando siamo fondamentalmente esseri senzienti e non ancora raziocinanti, in un’età nella quale si ama e si odia senza mezzi termini; in cui l’esperienza del piacere e del dispiacere, dell’amore e dell’odio sono sorgive di tutto (o quasi) quel che verrà e saremo dopo: sfrenate passioni e idiosincrasie irredimibili, incistate nella memoria alla pari di un corredo genetico. (pag. 41)

Il gusto di una vita, di Iaia Caputo, Enrico Damiani editore 2020

Il memoir che Iaia Caputo – napoletana di nascita e milanese di adozione – consegna alle stampe e al piacere di noi lettori, è un viaggio, o forse meglio dire un invito ad entrare nel suo mondo; un invito a sedersi con lei alla sua tavola, la tavola familiare del pranzo della domenica, apparecchiata di stoviglie buone, riempite da cibi preparati con cura, ma anche una tavola imbandita da fatiche esistenziali e da rapporti non sempre idilliaci, spesso il luogo dove divampano i conflitti, ma anche il conforto delle cure e delle attenzioni. Come, del resto, avviene nella maggior parte delle famiglie e come, dunque, siamo in grado di riconoscere frammenti che ci possono, per similitudine o per contrasto, appartenere. Insomma, il suo viaggio nella storia della formazione del gusto, sia quello dell’esistenza, che quello alimentare, che poi, tra di loro, sono saldamente intrecciati e reciprocamente influenzati.

Per compiere questo viaggio bisogna utilizzare uno strumento di navigazione, potente quanto labile: la memoria. Uno strumento, una bussola direi, che non sempre è in grado di restituirci con fedeltà ciò che è stato: vuoi perché essa cambia con noi – mentre cresciamo, e assommiamo esperienza – vuoi perché è quasi sempre selettiva, e talvolta ingannevole, e si lascia spesso influenzare dalla nostra voglia – consapevole o no – di ricordare ciò che vogliamo, come è effettivamente stato o come avremmo voluto che fosse.

Memoria che parte dall’infanzia, là dove tutto si genera, e dalle figure che l’hanno accompagnata, prima fra tutte la madre, figura che si colloca in una zona affettiva complessa: colei che è insieme conforto e sconforto, riparo e attrito. La figura materna è strettamente legata al rapporto col cibo e col gusto, e poiché il gusto è il senso fondativo di un’esistenza, come molti altri grandi autori della letteratura, Iaia Caputo ripercorre quei gusti e sapori che hanno accompagnato e marchiato lo scorrere della sua vita.

La pizzetta di Moccia è la mia madeleine. Ancora prima di evocarmi effluvi commoventi, salivazioni mnemoniche, sapore e consistenza, mi porta in un tempo in cui regnavano i miei genitori, giovani e immortali, divinità indiscusse di un mondo adulto che mi era ancora precluso. (pag. 52)

Sapori che si legano anche ai luoghi: quelli dell’infanzia, nell’opulenza dei cibi napoletani, di nomi e modi dire che scaturiscono da una lingua influenzata dal dialetto, e quelli della maturità, caratterizzati dalla praticità e dalla razionalità milanese. Così come l’abitudine e il piacere della preparazione dei piatti possono svilupparsi intorno a legami affettivi che si evolvono nel tempo, che appartengono alle scelte consapevoli dell’età adulta, quando si acquisisce una nuova consuetudine all’accoglienza tramite il cibo, quando cucinare diventa un atto creativo attraverso il quale esprimere anche i propri sentimenti.

Eppure, se la scrittura – come ci dice l’autrice – parte quasi sempre da una rottura, da una crepa che sancisce un prima e un dopo, così anche l’esperienza del gusto passa attraverso un momento di spaccatura, che stabilisce un confine al di là del quale – dopo essersi staccati dalla famiglia di origine – si inizia a costruire la propria vita, che porterà con sé un’altra sommatoria di gusti, di abitudini, di sapori. E nonostante ciò, manterrà aperto un canale sensoriale dominato dalla nostalgia, per i sapori, per i riti.

La dicotomia tra appartenenza e disappartenenza nasce per giustapposizione e, allo stesso tempo, per opposizione al nucleo familiare, il palcoscenico su cui vanno in scena le trame comiche e tragiche che segnano le nostre esistenze e che Iaia Caputo racconta nella sua specificità personale.

Nella sua esperienza, appartenenza e disappartenenza passano attraverso alcuni “milestone”, come il cibo, ma anche come l’uso di lingua o dialetto, che nella città di Napoli ( ma direi anche altrove) determinano una cesura di classe. Aspetti che è in grado di cogliere in modo più acuto chi, come l’autrice, ha delle radici mobili: radici che, ovunque tu vada e comunque tu la pensi, ti porti dietro, e che nei ritorni ti mostrano quanto il tempo, col suo incessante scorrere, sia in grado di cambiare i luoghi che si sono lasciati e che rimangono immutati solo nei nostri ricordi.

Iaia Caputo è autrice dei saggi Mai devi direDi cosa parlano le donne quando parlano d’amore (Corbaccio), Le donne non invecchiano maiIl silenzio degli uomini (Feltrinelli), e dei romanzi Dimmi ancora una parola (Guanda), Era mia madre (Feltrinelli). I suoi libri sono stati tradotti in Spagna, Portogallo, Croazia. Tiene corsi di Scrittura Creativa e workshop di Scrittura Autobiografica a Milano, in diverse città italiane e alla Scuola Holden di Torino. Il suo sito è http://www.iaiacaputo.it.

Foto mia: presentazione del 27/9/2020 presso la libreria Centofiori, Milano

Qui potete leggere l’incipit del libro.