Nella tradizione letteraria a partire da Euripide, Medea appare come una maga rabbiosa, disposta a uccidere i propri figli pur di consumare la vendetta contro il marito, Giasone, l’eroe degli Argonauti, ardito, benevolo e abile oratore. Ma davvero Medea è solo questo, una maga che detiene antichi poteri e che se ne serve senza scrupoli?

Medea non nasce nella civilizzata Grecia. È una “barbara”, un’esule, e contro di lei si scagliano i pregiudizi, i timori e le ipocrisie di una cultura che, nel fondo, non ammette il diverso. Stando a Claudio Eliano (II-III secolo d.C.), una testimonianza antica affermava che, dietro lauto compenso, Euripide aveva inventato l’infanticidio su richiesta dei corinzi, proprio per scagionarli dal terribile delitto. Medea sarebbe così un capro espiatorio, una terribile assassina capace di ogni gesto, come la tradizione ha poi voluta presentarcela.

Articolo di Storica, National Geographic

LA TRAGEDIA DI EURIPIDE

Medea (Μήδεια, Mḕdeia) è una tragedia di Euripide, andata in scena per la prima volta ad Atene, alle Grandi Dionisie del 431 a.C. La tetralogia tragica di cui faceva parte comprendeva anche le tragedie perdute Filottete e Ditti, ed il dramma satiresco I mietitori. Benché l’opera sia considerata uno dei capolavori di Euripide, si classificò soltanto al terzo posto, dietro un’opera di Euforione (figlio di Eschilo), vincitore e Sofocle, secondo classificato, i cui titoli non ci sono stati tramandati.

IL MITO DI MEDEA, MAGA E ASSASSINA:

Quando Giasone giunge nella Colchide insieme agli Argonauti alla ricerca del Vello d’oro, capace di guarire le ferite, custodito da un feroce e terribile drago per conto di Eeta, Medea se ne innamora perdutamente. E pur di aiutarlo a raggiungere il suo scopo giunge a uccidere il fratello Apsirto, spargendone i poveri resti dietro di sé dopo essersi imbarcata sulla nave Argo insieme a Giasone, divenuto suo sposo. Il padre, così, trovandosi costretto a raccogliere le membra del figlio, non riesce a raggiungere la spedizione, e gli Argonauti tornano a Jolco con il Vello d’Oro. Lo zio di Giasone, Pelia, rifiuta tuttavia di concedere il trono al nipote, come aveva promesso in precedenza, in cambio del Vello: Medea allora sfrutta le proprie abilità magiche e con l’inganno si rende protagonista di nuove efferatezze per aiutare l’amato. Convince infatti le figlie di Pelia a somministrare al padre un “pharmakón“, dopo averlo fatto a pezzi e bollito, che lo avrebbe ringiovanito completamente: dimostra la validità della sua arte riportando un caprone alla condizione di agnello, dopo averlo sminuzzato e bollito con erbe magiche. Le figlie ingenue si lasciano ingannare e provocano così la morte del padre, tra atroci sofferenze: Acasto, figlio di Pelia, pietosamente seppellisce quei poveri resti e bandisce Medea e Giasone da Iolco, costringendoli a rifugiarsi a Corinto, dove si sposeranno.

Medea, teatro Tempio di Giunone, 2019

LA TRAMA DELL’OPERA DI EURIPIDE:

Dopo aver aiutato il marito Giasone e gli Argonauti a conquistare il vello d’oro, Medea si è trasferita a vivere a Corinto insieme al consorte ed ai due figli, abbandonando il padre per seguire l’amore. Dopo alcuni anni però, Giasone decide di ripudiare Medea per sposare Glauce, la figlia di Creonte, re di Corinto. Questo infatti gli darebbe diritto di successione al trono.

La donna si lamenta col coro delle donne corinzie in modo disperato e furioso, scagliando maledizioni sulla casa reale, tanto che il re Creonte, sospettando una possibile vendetta, le intima di lasciare la città. Tuttavia, nascondendo con abilità i propri sentimenti, Medea resta ancora un giorno, necessario per poter attuare il proprio piano. Medea rinfaccia a Giasone tutta la sua ipocrisia e la mancanza di coraggio, ma Giasone sa opporre solo banali ragioni di convenienza.

Di fronte all’indifferenza del marito, la donna attua la sua vendetta. Per prima cosa ottiene dal re di Atene Egeo (di passaggio per Corinto) la promessa di ospitarla nella propria città, offrendo le proprie arti magiche per dargli un figlio; poi, fingendosi rassegnata, manda in dono alla futura sposa di Giasone una ghirlanda e una veste avvelenata. La ragazza, indossati i doni, muore tra atroci tormenti bruciata da un rivolo di fuoco che si propaga dalla ghirlanda e scarnificata dalla veste stessa; la stessa sorte tocca a Creonte, accorso per aiutarla. Tale scena viene raccontata da un messaggero.

A questo punto Giasone accorre per tentare di salvare almeno la propria prole, ma Medea appare sul carro alato del dio Sole, mostrando i cadaveri dei figli che ella stessa, seppur straziata nel cuore, ha ucciso, privando così Giasone di una discendenza. Alla fine la donna vola verso Atene, lasciando il marito a maledirla, distrutto dal dolore.

Eugène Delacroix, La furia di Medea, 1838

La tragedia è essenzialmente incentrata sugli uomini, lasciando da parte gli dèi, i quali non intervengono mai, tanto da spingere Giasone, verso la fine della vicenda, ad inveire contro di essi, accusandoli, ma senza risposta, di non aver impedito la triste sorte dei suoi figli. Euripide giudica colpevole non solo Medea, esecutrice materiale dei delitti (in particolare quelli dei figli), ma anche Giasone, reo di aver ingannato la protagonista per un “letto migliore”.

Maria Callas in Medea

Domina l’opera la straripante, incontrastata personalità di Medea, indubbiamente uno dei più grandi personaggi di Euripide. Fortemente emotiva e passionale, la donna esibisce un’ampia gamma di stati d’animo, che culminano negli omicidi della giovane sposa di Giasone e dei propri figli: atti caratterizzati sì da grande ferocia, ma non privi di dubbi e di tentazioni di desistere, talvolta manifestati nell’ambito della stessa scena, in un continuo alternarsi di propositi omicidi e di pentimenti. È uno dei personaggi più celebri e controversi della mitologia greca. Il suo nome in greco significa “astuzie, scaltrezze”, infatti la tradizione la descrive come una maga dotata di poteri addirittura divini.

Medea può essere vista come vittima di pulsioni interne incontrollabili, o anche come moglie così addolorata per l’abbandono del marito da arrivare a perdere ogni raziocinio. La grandezza del personaggio sta proprio nell’essere assai complesso, in una continua lotta tra la razionalità e le passioni. È la prima volta nel teatro greco (almeno per le opere note) in cui protagonista è la passione di una donna, una passione femminile violenta e feroce che rende Medea una donna debole e imponente allo stesso tempo. Forte perché padrona della sua vita e non disposta a piegarsi davanti a nessuno, e al tempo stesso debole perché sola, disperata ed intenzionata a distruggere tutto quello che rappresenta il suo passato.

Se, di solito, la tragedia classica presenta due personaggi in conflitto (per esempio Creonte e Antigone, oppure Oreste e Clitennestra), ciascuno portatore di un ben preciso ordine di vedute, Medea contiene, dentro di sé, quasi due figure contrastanti: una vorrebbe uccidere i figli, l’altra li vorrebbe risparmiare. Alla fine dell’opera, però, la donna appare in atteggiamento vittorioso, tanto da volare addirittura via su un carro divino.

Medea prima dell’assassinio dei figli, Affresco da Pompei, casa dei Dioscuri

Medea era figlia di Eete, re della Colchide, e di Idia. Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio era indicata come nipote di Elio e della maga Circe; al pari di quest’ultima era dotata di poteri magici. Invece secondo la variazione del mito proposta da Diodoro Siculo, il Sole, Elio, ebbe due figli, Perse e Eeta. Perse ebbe una figlia, Ecate, potentissima maga, che lo uccise e più tardi si congiunse con lo zio Eeta. Da questa unione sarebbero nati Medea ed Egialeo. Dunque Medea è figlia di Eeta – a sua volta figlio del Sole e re della Colchide, una regione agli estremi confini del mondo greco, sul Mar Nero – e di Ecate, la dea dell’Oltretomba e delle notti di luna piena. Tali legami con il Sole e con gli Inferi fanno di Medea una figura particolare, dotata di straordinari poteri magici.

Per amore di Giasone Medea si lascia alle spalle la Colchide; rinuncia alla famiglia, alla terra in cui è cresciuta, agli agi e alla reputazione di giovane principessa vergine; si spoglia di ogni veste per indossare i panni della moglie fedele. Le rimangono giusto la magia, che la lega alla zia Circe, sorella di Eeta, e l’intelligenza, la stessa che aveva spinto Esiodo a descriverla come donna «dagli occhi sfavillanti».

Articolo di Storica, National Geographic

Giasone, al contrario, è un personaggio decisamente tralasciato nella tragedia, tanto da fargli ottenere la fama di seduttore che spingerà Dante a collocarlo nell’Inferno della Divina Commedia. Dimostrandosi prepotente, pare che per lui l’amore rappresenti solo un mezzo, convincendosi di sedurre Medea con il suo linguaggio. Pagherà comunque un prezzo molto alto per il suo comportamento: la vita della promessa sposa e dei figli.

È interessante notare come due personaggi molto importanti all’interno dell’opera, i figli di Medea, siano sempre muti, ad eccezione di due brevi frasi pronunciate fuori scena quando si accorgono di essere in pericolo di vita. Euripide intendeva evidentemente sottolineare la loro condizione di bambini inermi e, di conseguenza, destinati a subire la sorte tragica senza poter né reagire né opporvisi. Anche la promessa sposa di Giasone, benché non appaia mai in scena, è un personaggio di non secondaria importanza, destinata a subire senza alcuna colpa una sorte atroce.

La tragedia contiene una forma di critica al modello familiare tradizionale in uso nella Atene del V secolo a.C. Di fronte allo sdegno ed alla disperazione di Medea per le nuove nozze del marito, infatti, Giasone contrappone motivazioni che potevano apparire sensate: la necessità di generare nuovi figli per la città, di assicurarsi una posizione sociale adeguata e la convinzione che del resto Giasone avesse fatto già molto per Medea, portandola via dal mondo barbaro in cui viveva prima (la Colchide) e rendendole onore. Avviene un dialogo assai serrato tra i due, in cui la moglie enumera i rischi del matrimonio: ” anzitutto [noi donne] dobbiamo versare una robusta dote e prendere un marito che sarà il padrone della nostra persona senza sapere se costui sarà buono o cattivo” lamentando che “separarsi dal marito è una disgrazia, ripudiarlo non si può… L’uomo quando si annoia esce con gli amici e si distrae, mentre noi siamo condannate a vedere una sola persona per tutta la vita” e concludendo amaramente con la celebre invettiva: “[gli uomini] sostengono che, mentre loro rischiano la vita in guerra, noi donne viviamo sicure in casa. Falso! Preferirei combattere tre volte in prima linea piuttosto che partorire una volta!” mentre Giasone l’accusa di essere, come tutte le donne, attaccata solo al letto e non considerare i vantaggi che le sue nozze con la figlia di Creonte porterà ai loro figli.

Elisabetta Pozzi, in Medea. Regia di Krzysztof Zanussi, 2009

La tragedia propone insomma uno scontro tra culture diverse, una considerata più moderna e civile (Corinto), l’altra più barbara e arretrata (la Colchide). Questa contrapposizione doveva apparire evidente dall’uso da parte di Medea della magia, forza inquietante e barbara per eccellenza, e dal fatto che la donna fosse vestita in scena con un abbigliamento di tipo orientale. In tale scontro, però, è la parte ritenuta più barbara ad uscirne vincitrice, con un messaggio finale che è in effetti un non-messaggio, privo di soluzioni.

Nel corso dei secoli molti autori si sono cimentati con il dramma di Euripide, creandone versioni che differivano più o meno ampiamente dal modello originale, a seconda del momento storico e del luogo in cui erano state scritte. Nella letteratura latina, delle numerose versioni scritte solo una è giunta integra ai nostri giorni, la Medea di Seneca. Anche Ovidio, fra il 12 a.C. e l’8 a.C., ne scrisse una versione coronata da un buon successo, ma essa è andata perduta, così come la Medea di Ennio.

Tra le opere moderne, una versione interessante è quella di Franz Grillparzer (1821), che pone maggiormente l’accento sul fato e sulle circostanze avverse che spingono la donna ad agire; mentre nel 1949 Corrado Alvaro, nella sua Lunga notte di Medea, mette in evidenza la condizione di Medea come di una donna estranea in una comunità chiusa, e di conseguenza aggredita e discriminata. Da ricordare inoltre la Medea di Jean Anouilh (1946) nonché il romanzo Medea. Voci della scrittrice tedesca Christa Wolf, in cui la situazione di Medea a Corinto viene letta come metafora dello spaesamento dei cittadini della Repubblica democratica tedesca dopo la riunificazione. A queste riletture contemporanee va aggiunta la storica Medea pasoliniana – Maria Callas nel ruolo principale – in cui l’azione scenica viene alternata a silenzi e sguardi carichi di significati oracolari, in una versione ‘antimoderna’.

A Stoccolma, Svezia, nel 1975, Suzanne Osten e Per Lysander riscrissero la Medea di Euripide tra gli spazi del Teatro Unga Klara e quelli delle scuole con cui lavoravano. Ricostruirono la storia, rileggendo il testo antico, provando con gli attori, improvvisando insieme a ragazzi e bambini, mescolando la lingua realistica dei piccoli con le parole che Euripide aveva scritto per Medea. Il testo teatrale è stato pubblicato in Italia con il titolo I figli di Medea (Edizioni Primavera, 2020) nella collana di letteratura teatrale i gabbiani diretta da Federica Iacobelli.

Medea, Teatro di Napoli, luglio 2023

DAL MITO ALLA PSICOLOGIA: LA SINDROME DI MEDEA

La sindrome di Medea indica una condizione in cui la madre uccide, anche psicologicamente e non necessariamente fisicamente, il proprio figlio come atto di  vendetta nei confronti dell’altro genitore.
Questa interpretazione metaforica viene coniata nel 1988 dallo psicologo Jacobs. Secondo la sua lettura, ha a che fare con l’alienazione genitoriale, definita dallo psichiatra R. Gardner come “un disturbo che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. In questo disturbo, un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore (genitore alienato).” Si tratta dunque di fattori che vengono scatenati da una crisi di coppia portata alle estreme conseguenze, per cui il genitore strumentalizza il figlio per vendetta e in cui la triangolazione familiare e la rabbia cieca sono il sintomo di una difficoltà a elaborare ciò che sta avvenendo. 

(Fonti varie web, e vedi Wikipedia, WikiCommons)

Se amate i miti greci, vi segnalo il mio post dedicato a Elettra, e quello dedicato ad Antigone.