Una famiglia è una fune (..) Un cavo d’acciaio che ti tiene, qualunque cosa accada. Ti impedisce di perderti e dissolverti perché tu, in quell’aggancio, sei stato amato.
Pag. 280
Cuore nero, di Silvia Avallone, Rizzoli 2024, pp. 368, vincitore del Premio Elsa Morante per la narrativa 2024
In una intervista, Silvia Avallone ha spiegato le motivazioni che l’hanno portata a scrivere questo romanzo:
“Trovo che la letteratura riesca con maggiore empatia, senza giudizio, a tentare di comprendere l’irreparabile. È l’unico luogo capace di accogliere il dolore, sia subìto che compiuto, e la grande questione del male.”
E sono proprio questi i temi che ritroviamo così meravigliosamente tradotti in una storia; un romanzo travolgente, che racconta una storia dura, dolorosa, autenticamente umana. Protagoniste sono delle vite interrotte, vite che hanno sperimentato il male, che lo hanno fatto o subìto, che lo portano addosso come un abito che non si riesce a togliere ma dal quale provano ad affrancarsi; “un’umanità ferita, ma che ha ancora tanto da riscattare”.
Con coraggio e bravura, Silvia Avallone scrive questo romanzo che sonda la colpa, esplorando i suoi abissi, la difficoltà di superarla senza negarla, né giustificarla, guardandola in faccia senza reticenze. Giustapponendola al riscatto, alla possibilità di trasformare l’energia negativa in un flusso positivo capace di risanare e incanalare verso il bene. Per intraprendere questa strada così difficoltosa è necessario riuscire ad assolvere se stessi, sia che il male lo si sia compiuto o subìto, perché prima che lo facciano gli altri, lo deve fare chi ne è protagonista.
Il racconto si apre con un uomo e una donna, padre e figlia, che risalgono a fatica una mulattiera persa nel bosco, trascinandosi valige, in abiti cittadini. Sono diretti a Sassaia, minuscolo borgo semiabbandonato incastonato tra le montagne del Piemonte. Sono Emilia, capelli rossi e crespi, lentiggini spruzzate sul volto pallido, magrissima, un’adolescente di trent’anni con gli anfibi viola e il giaccone verde fluo, e Riccardo, in abiti eleganti da città, un uomo dall’aspetto curato e dai modi gentili.
A Sassaia ci sono solo due abitanti: Bruno, trentasette anni, maestro elementare di un’unica classe omnicomprensiva nel vicino borgo di Alma, e Basilio sessantaquattrenne che ne dimostra cento, imbianchino e restauratore, schivo e di poche parole. Entrambi hanno scelto di vivere qui, isolati ma protetti dalla netta separazione dalla comunità. E Sassaia è proprio questo che rappresenta per Emilia: un rifugio dove nessuno conosce il suo passato. Un luogo dove provare a ricominciare a vivere.
Senza saperlo, Emilia e Bruno, hanno in comune l’avere sperimentato il male; lui perché ne è stato vittima, lei perché l’ha compiuto. Un male che comunque ha spazzato via il loro futuro, che ha deviato le loro traiettorie, facendole cozzare contro un macigno che ha mandato in frantumi affetti, speranze, crescita, amori. Lui ha perso per sempre il sé bambino, diventando di colpo un vecchio eremita che non si aspetta più nulla dalla vita; lei ha perso l’adolescenza, diventando un’adulta rimasta ragazzina, che a trent’anni non è mai andata in discoteca, né ha mai fatto l’amore.
Emilia ha pagato con molti anni di carcere per un grave, irreparabile, crimine che ha commesso: gli anni dell’adolescenza, quelli in cui si diventa adulti, in cui si sperimenta e si cerca la propria strada, lei li ha scontati dietro le sbarre, con l’unica fortuna di avere trovato, nel carcere minorile, un team di psicologi e assistenti sociali che l’hanno spinta a studiare, a progettare una possibilità di riscatto. E dove ha trovato una grande amica, poco più grande di lei, vittima anziché carnefice, ma fermamente decisa a riprendersi ciò che la vita le ha tolto.
Bruno è la voce narrante che ricostruisce, alternando presente e passato, i loro destini, due solitudini che si sono trovate, respinte e attratte in un alternarsi di sentimenti, di fughe e avvicinamenti. Perché mentre Bruno, man mano che i suoi sentimenti verso Emilia si fanno più intensi, si apre e ripercorre la tragedia che l’ha colpito, Emilia, proprio perché si è innamorata di Bruno, non trova la forza per esprimere il male che ha fatto, ha bisogno di arrivarci con i suoi tempi.
Non siamo i nostri traumi. Il risultato di quello che abbiamo commesso o subìto. Il passato non coincide con il punto in cui ci troviamo adesso. Siamo altrove.
Pag. 142
Avallone, in una intervista al Corriere, ragiona sulla facilità del male e sulla bellezza del bene, perché il male è banale, come ha raccontato Hannah Arendt a proposito del criminale nazista Eichmann. A compiere il male ci spingono i peggiori sentimenti umani, a cui si cede, si dà sfogo in un momento di debolezza, di frustrazione, di perdita del controllo. Più difficile e faticoso tramutarli in qualcosa di costruttivo.
Attraverso questo incrocio di vite rotte che desiderano una riparazione, Avallone ci addita una possibilità, una su tante, forse troppe, di trovare quella tortuosa e insidiosa via verso l’emancipazione dal male.
SILVIA AVALLONE è nata a Biella nel 1984 e vive a Bologna. Per Rizzoli ha pubblicato Acciaio (2010), secondo classificato per soli 4 voti allo Strega 2010, da cui è stato tratto l’omonimo film, Marina Bellezza (2013), Da dove la vita è perfetta (2017), Un’amicizia (2020). I suoi romanzi sono tradotti in tutto il mondo. Sul blog potete leggere il Focus a lei dedicato.



Credo che lo ascolterò su Auditel, ho letto solo alcuni articoli di Avallone ed è sempre riuscita ad irritarmi, non riesco nemmeno io a capire perché, quindi mi sono sempre tenuta lontana dai suoi libri, ma potrebbe essere un pregiudizio da sfatare!
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Prova, magari ti sorprenderà.
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