Ogni mattina, quando mi alzo, la stanza è ancora buia e il mio destino è lì che mi aspetta; guardo il sorgere del sole e mi dico: “Ecco un’altra alba.” Ma il mio destino si è già compiuto. Gli sono andata incontro io, ho guidato io i miei passi.
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L’albero delle arance amare, di Jokha Alharthi, Bompiani 2023, traduzione di Giacomi Longhi, pp. 192
Il nuovo romanzo della scrittrice omanita è un viaggio introspettivo tra due culture; come per l’altra sua opera, Corpi celesti (QUI la mia recensione), – vincitore nel 2019 del Man Booker International Prize – ho potuto apprezzare molto la sua scrittura e il suo modo di raccontare .
Zuhur, la protagonista del romanzo di Jokha Alharthi, si trova ad affrontare un duplice spaesamento: da un lato, il distacco dalla sua terra natale, l’Oman, e dalle sue radici; dall’altro, l’inserimento in una realtà straniera, l’Inghilterra, con la sua lingua e cultura diverse. Questo duplice spaesamento si traduce in un senso di solitudine e di difficoltà a trovare la propria strada. La narrazione, con la sua struttura frammentaria, riflette questo stato di sospensione tra passato e presente.
Zuhur, come molti altri giovani che si trovano a vivere lontano da casa per la prima volta, si scontra con le difficoltà dell’adattamento a una nuova realtà. La lingua diversa, le abitudini degli altri studenti, i rumori e la musica che provengono da altre culture, tutto contribuisce a farla sentire smarrita e lontana da casa sua.
Il senso di spaesamento ed estraneità viene accentuato dal ricordo della nonna adottiva, figura fondamentale nella sua vita. Zuhur infatti ripercorre la storia di Bint ‘Amir, figura femminile forte e volitiva che rappresenta per lei un punto di riferimento essenziale. La nonna per Zuhur è il legame con le sue radici e con la sua identità, e la sua assenza si fa sentire ancora di più in questo ambiente estraneo.
L’autrice descrive il desiderio di rivivere anche solo per un attimo quei momenti semplici ma preziosi trascorsi con la nonna: gli odori della sua cucina, le sue carezze affettuose, le sue parole rassicuranti. È come se cercasse di aggrapparsi a quei ricordi per attenuare il dolore dell’assenza. Lei è una figura che simboleggia sia l’amore incondizionato di una madre che la saggezza e l’esperienza di una donna che ha vissuto molto. La sua presenza è un rifugio sicuro, un porto in cui trovare conforto e sostegno.
Nel romanzo di Jokha Alharthi, l’Oman degli anni Quaranta emerge come un territorio ben diverso da quello odierno. Lontano dall’essere una meta turistica o un attore chiave sulla scena internazionale, il paese si presenta come un luogo isolato e inaccessibile, dove le comunicazioni sono lente e difficoltose. La descrizione di Alharthi ci trasporta in un’epoca in cui il tempo scorreva a un ritmo diverso. Per ottenere informazioni o spostarsi da una città all’altra era necessario attendere l’arrivo del furgoncino diretto a Mascate, la capitale, e munirsi di un lasciapassare rilasciato dal sultano solo per motivi specifici.
L’Oman ritratto nel romanzo è un paese in bilico tra tradizione e modernità. Da un lato, vige un rigido sistema patriarcale che regola ogni aspetto della vita sociale; dall’altro, iniziano ad affacciarsi i primi timidi segnali di cambiamento, portati dal vento del progresso e dall’influenza occidentale.
L’incontro con la sorella di un’amica e le sue vicende sentimentali segnano un punto di svolta per Zuhur. La sua partecipazione a queste vicende la spinge a confrontarsi con i propri sentimenti e a riconsiderare il suo rapporto con la sua terra natale e la sua cultura. Gradualmente, grazie ai ricordi di Bint ‘Amir e alle esperienze vissute in Inghilterra, Zuhur ritrova la consapevolezza di sé e il senso di appartenenza.
La scrittura di Alharthi, diretta, morbida e avvolgente, accompagna la protagonista (e il lettore) in questo viaggio introspettivo, delineando con maestria le sfumature emotive e la complessità dei personaggi.
L’albero delle arance amare è, dunque, un romanzo che esplora i temi dell’identità, della memoria e del rapporto tra culture diverse. Un’opera toccante, intimistica e ricca di significato che ha conquistato il plauso della critica e il Premio Man Booker International 2020.

Jokha Alharhi ha raggiunto la notorietà internazionale nel 2019, quando la sua opera Corpi celesti (Celestial Bodies, versione inglese di Sayyidat el-Qamar), ha vinto il Man Booker International Prize (primo romanzo arabo ad aggiudicarsi il riconoscimento).
Dopo gli studi alla Sultan Qaboos University, ha conseguito il dottorato in Letteratura classica araba presso l’Università di Edimburgo. Attualmente insegna Letteratura Araba presso la SQU. Ha pubblicato in arabo tre romanzi, tre raccolte di racconti, alcune sillogi poetiche, numerosi libri per ragazzi nonché studi letterari su vari argomenti.

