Mentre tutto brucia, di Paulina Spiechowicz, Nutrimenti 2025, pp. 240
Due minuti dopo, sfrecciavano sul motorino per la strada che costeggiava il Lido. (..) La sera li inghiottiva assieme alla carica notturna, ovunque voglia di vita e di deriva.
Pag. 73
Da pochi giorni in libreria per i tipi di Nutrimenti editore, nella collana GreenwichExtra, questo romanzo generazionale di formazione si fa notare per la scrittura graffiante, lucida e diretta, senza ipocrisie o edulcorazioni, inglobando in sé il gergo dialettale e quello generazionale. Una scrittura visiva, in grado di decifrare il reale, un flusso narrativo che si dipana come una sintassi dell’immagine, capace di mostrare al lettore quello che si materializza sulla pagina, non più solo grazie a segni grafici, ma piuttosto grazie alle immagini che tali segni evocano.
Mi ha ricordato E i figli dopo di loro di Nicolas Mathieu (ve ne avevo parlato QUI): stessi anni (1992, 1994), l’estate torrida, la periferia, l’adolescenza borderline, l’integrazione difficile, da un lato la Francia povera, dall’altra il litorale romano a due facce. E anche Eravamo dei grandissimi di Clemens Meyer (ve ne ho parlato QUI), la Germania dell’Est a cavallo della caduta del muro, un racconto alla Trainspotting, tra droghe, furti, violenza, illusioni, adolescenze complicate.
Nell’estate torrida del 1994, i protagonisti di Mentre tutto brucia vivono tre mesi densi e tragicamente decisivi. Sono mesi in cui le loro vite cambiano per sempre, segnate da incontri, scontri e scoperte.
I turbolenti protagonisti sono alla ricerca di un senso di identità, di appartenenza e di soddisfazione personale. Amore e ribellione sono le due forze che li muovono, spesso in direzioni opposte. Percorrono ciascuno la propria strada, un groviglio di traiettorie che si intersecano e sovrappongono, per sfidare le aspettative e cercare il proprio posto nel mondo, anche quando tutto sembra andare in fiamme.
Kamil e Beatrice, sedici e diciassette (quasi diciotto) anni, tornano in Italia dalla madre dopo un anno in Polonia, dove hanno vissuto col padre polacco, la sua nuova compagna e il loro figlio neonato. Kamil detesta lo stile di vita “sovietico” imposto dal padre, le regole, la parsimonia, il non-divertimento come normalità; nutre sentimenti di odio nei confronti della donna che ha strappato il padre a sua madre, e odia soprattutto il figlioletto. In questo anno ha sentito la mancanza di Roma, soprattutto degli amici del branco e della madre, Viola.
Di famiglia borghese e abbiente, proprietaria di un lido con annesso bar e ristorante,Viola è una donna fragile e instabile: l’anno prima ha tentato il suicidio, dopo il processo può vedere i figli solo nel periodo estivo; ora è in terapia psicologica e sembra pronta a riprendere in mano la propria vita. Kamil è in apprensione per lei, teme qualche suo nuovo passo falso che oltre a danneggiare lei, potrebbe intralciare il suo progetto, visto l’imminente compimento dei diciotto anni, di potere decidere del suo destino, e cioè di rimanere per sempre in Italia. A Beatrice invece dell’Italia non mancava nulla, lei che a Roma non è mai stata capace di farsi delle amiche, di innamorarsi, di sentirsi accettata.
Il ritorno in Italia è uno spartiacque nella vita di Kamil e Beatrice. Li allontana dalle severe regole comportamentali del sistema educativo socialista, dal controllo vigile del padre, per catapultarli in un sistema senza regole, quello della periferia cittadina dove tra gli adolescenti del branco del curvone – molti con famiglie difficili – girano droga, sesso facile e alcol, insieme alla violenza verbale e fisica, all’odio per gli stranieri immigrati.
Kamil, catapultato nella periferia romana che ben conosce, si sente investito di una responsabilità adulta nei confronti della madre, Viola, che lotta contro i suoi demoni interiori in analisi psichiatrica. Il ragazzo è costantemente in apprensione per lei, temendo un nuovo tentativo di suicidio o una ricaduta. Questa iper-responsabilità, tuttavia, nasconde una profonda rabbia repressa e una difficoltà nel gestire le proprie emozioni. Kamil oscilla tra la protezione nei confronti della madre e momenti di violenza incontrollata, come se il peso di doversi fare carico di un adulto lo soffocasse.
Beatrice, al contrario, sembra vivere in un limbo emotivo. Considerata una “nullità” dalla madre, che non le perdona il suo ruolo in tribunale durante la separazione, si sente un’estranea nella sua stessa famiglia. Incapace di stringere legami significativi, trova conforto nel rapporto con Nico, un ragazzo del “branco del curvone” da poco uscito dal carcere per spaccio. Nico, a sua volta, consapevole di come il suo passato criminale gli stia stretto, vede in Beatrice una possibilità di riscatto e di crescita personale, ma la sua gelosia e possessività rischiano di soffocare la giovane. Il loro rapporto è fragile e minacciato dalle dinamiche violente del branco e dalla difficoltà di Nico a liberarsi completamente dal suo passato.
L’unica oasi di normalità per Beatrice sembra essere l’amicizia con Ludovica, che la aiuta a colmare quel vuoto affettivo che la madre ha scavato nel suo cuore.
Il “branco del curvone” diventa il punto di riferimento per Kamil, dove, nonostante le umiliazioni subite in passato, soprattutto da parte di Nico, si sente accettato e parte di un gruppo. L’attrazione per questo mondo, tuttavia, è ambivalente: da un lato, rappresenta una fuga dalle responsabilità familiari e dalle difficoltà emotive; dall’altro, lo riporta in un ambiente violento e degradato che rischia di farlo sprofondare.
Le storie dei due fratelli si intrecciano in un contesto di violenza latente, dove i rapporti si fanno e si disfano con la stessa rapidità con cui una pistola rubata passa di mano in mano. Il rispetto per gli altri è un concetto labile, spesso soppiantato dall’egoismo, dall’aggressività e dall’influenza di alcol e droghe. Il linguaggio stesso dei dialoghi, un romanesco crudo e diretto, riflette la durezza delle situazioni e l’assenza di filtri morali.
La vita gli scivolava tra le mani, un ammasso di detriti calcinacci polvere e macerie, che si mettevano in circolo nel sangue fino a calcificargli le viscere. Dopo che il padre se ne era tornato a vivere in Polonia, si era convinto che sarebbe diventato il capo della famiglia; solo ora si accorgeva a che punto quella famiglia non esisteva più.
Pag. 138
L’aspetto centrale del romanzo è il rapporto complesso e contrastante dei due fratelli con le proprie origini e la ricerca di identità. Kamil e Beatrice incarnano due modi opposti di affrontare il tema delle proprie radici. Entrambi si sentono stranieri, “né carne né pesce”, incapaci di identificarsi pienamente con una sola cultura. Questa condizione di sradicamento genera in entrambi un senso di incompletezza e di ricerca.
Per Kamil, il vuoto identitario diventa un’ossessione. La sua ricerca di un posto nel mondo si traduce nella volontà di integrarsi a tutti i costi nel “branco” di Ostia. L’appartenenza al branco, anche a costo di negare la propria individualità, rappresenta per Kamil un modo per colmare quel senso di sradicamento e trovare una (seppur distorta) forma di identità.
Beatrice, al contrario, vive l’assenza di radici fisse come una condizione di libertà. Non sentendosi legata a un’identità specifica, Beatrice si percepisce come “apolide” in senso positivo. Questa “leggerezza” le permette di reinventarsi, di sperimentare e di aprirsi a nuove esperienze senza il peso di dover rendere conto a un passato o a un’appartenenza definita. L’assenza di legami fissi, quindi, non è per Beatrice una perdita, ma una possibilità di crescita e di scoperta. La consapevolezza della propria “apolideità” conferisce a Beatrice una forza inaspettata. Non avendo nulla da perdere, la ragazza si sente libera di esplorare nuovi orizzonti e di costruire il proprio futuro senza condizionamenti. L’assenza di radici diventa per lei un punto di partenza, una spinta verso un “altrove” ricco di potenzialità.
Paulina Spiechowicz dipinge un quadro vivido e realistico di un’adolescenza difficile, sospesa tra la ricerca di identità, l’amore e la violenza. La storia di Kamil e Beatrice è raccontata con uno stile crudo e autentico, che non risparmia al lettore la durezza della realtà. Anche le descrizioni del paesaggio e degli elementi naturali trasudano un senso di oppressione e di imminenza del pericolo.
Per la prima volta si sentì in ostaggio della propria città, in quel borgo bastardo: anche Ostia lo tradiva, anche il mare si ribellava. Dalla finestra arrivava il ruggito delle onde, bocche feroci pronte a squartarlo, a trucidarlo per inzaccherare il cielo col suo sangue.
Pag. 220
Il romanzo esplora temi importanti come il disagio sociale, la fragilità familiare, la difficoltà di crescere e di trovare un senso in un mondo che sembra andare alla deriva. I personaggi sono complessi e sfaccettati, animati da passioni contrastanti e alla continua ricerca di un equilibrio precario. La loro storia, intrisa di rabbia e di speranza, ci invita a riflettere sulla condizione degli adolescenti di oggi, spesso lasciati soli a combattere le proprie battaglie, oppure affidati ad adulti fragili e irrisolti.
Mentre tutto brucia è un libro che non lascia indifferenti, capace di emozionare e di far pensare. Lo consiglio a tutti coloro che amano le storie intense e realistiche, ai lettori che non hanno paura di confrontarsi con le difficoltà della vita e ai giovani che si riconosceranno nelle fragilità e nel coraggio dei protagonisti. Un romanzo d’esordio che conferma il talento di una scrittrice che sa raccontare il nostro tempo con lucidità e sensibilità.
QUI potete leggere l’incipit.

Paulina Spiechowicz è nata a Cracovia nel 1983. Trasferitasi in Italia da bambina, ha studiato editoria e giornalismo a Roma, dove vive. Su Nazione Indiana, Satisfiction, Patria letteratura sono apparsi dei suoi racconti. Ha scritto per il teatro, suoi testi sono andati in scena a Parigi, e ha scritto poesia – Studi sulla notte, Ensemble 2012. Mentre tutto brucia è il suo esordio, vincitore del premio Clara Sereni 2023 per il romanzo inedito.


Ciao Pina cara ❤
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Un caro saluto, amico mio
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🙂
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Questo libro sembra un pugno nello stomaco, ma di quelli che fanno bene, che ti scuotono e ti costringono a guardare da vicino realtà scomode. Mi affascina l’idea di questa scrittura così visiva e cruda, capace di trascinarti dentro la storia senza filtri. E il confronto con E i figli dopo di loro e Eravamo dei grandissimi mi ha convinta ancora di più. Insomma, mi sa che questa lettura finisce dritta in lista!
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Dici bene, è un libro che ti sbatte in faccia la realtà per come è, senza sconti. Una storia che ci parla delle nuove generazioni, alle prese con quello che è stato lasciato loro in eredità.
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