Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, di Michele Ruol, TerraRossa edizioni 2024, pp. 198
La splendida copertina è opera di Francesco Dezio
Opera vincitrice della XXI edizione del Premio Giuseppe Berto
Opera vincitrice della IX edizione del Premio Fondazione Megamark
Opera inclusa nella dozzina del Premio Strega 2025, proposta da Walter Veltroni
Forse è così che si supera il dolore, rimuovendolo insieme a quello che gli sta intorno, insieme a ogni altra sensazione.
Pag. 85
Il romanzo di Michele Ruol si addentra nel silenzio assordante lasciato dalla perdita improvvisa di Maggiore e Minore, i figli di Padre e Madre. Un istante fatale e il mondo dei due genitori si svuota di ogni significato, ogni direzione, riducendosi a un’eco inconsistente. Con una penna precisa e tagliente, Ruol traccia la deflagrazione del dolore attraverso la meticolosa catalogazione di oggetti, spazi, frammenti di tempo e gesti quotidiani, ora intrisi di assenza. Un meccanismo narrativo che mi ha ricordato i Sillabari di Goffredo Parisi.
La scrittura essenziale, quasi scarnificata, amplifica la potente emozione che emana da ogni pagina, trasformando la lettura in un intimo e struggente inventario di una vita stravolta dal più doloroso dei lutti.
C’è chi dice che il tempo cura ogni cosa.
Pag. 122
Madre non era per niente d’accordo.
Ci sono cose che non si cureranno mai, pensava lavandosi le mani sporche di terriccio – tutto quello che fa il tempo è concedere di assistere a nuove fioriture a chi ha la pazienza di aspettare.
Il lungo e suggestivo titolo del romanzo di Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, infatti disvela immediatamente il suo nucleo narrativo: in queste pagine pubblicate da TerraRossa, editore dalla fine sensibilità, non sono i personaggi a raccontare la propria storia, bensì gli oggetti muti testimoni del loro destino.
Attraverso gli oggetti sparsi tra le mura di una casa funestata dal tragico evento – che si disvelerà al procedere dei capitoli -, il lettore ricostruisce il dramma dei suoi quattro abitanti: un Padre, una Madre, un Maggiore e un Minore, figure archetipiche designate dal loro ruolo familiare, anziché dai nomi propri, appellativi che richiamano funzioni attoriali.
L’originale espediente narrativo adottato da Ruol frantuma il punto di vista in una pluralità di sguardi inanimati, una miriade di cose che, disseminate nelle stanze e persino nel garage, hanno assistito silenziose alle esistenze dei componenti della famiglia, evocando ciascuna un momento, un ricordo, un istante.
Laddove l’inventario oggettuale rischia di disperdere la memoria in schegge, è lo spazio a fornire una coerenza strutturale al romanzo. La casa diviene un territorio da esplorare in ampiezza, attraverso la sua geografia interna, ma anche in profondità, rivelando le diverse stratificazioni temporali inscritte negli oggetti che la popolano.
Già sfogliando l’indice, la cifra di 99 oggetti cattura l’attenzione, preannunciando una narrazione polifonica distribuita in altrettanti brevi capitoli, estesi da poche righe a qualche pagina. In un ingegnoso gioco di rimandi e sottrazioni, il lettore è chiamato a districarsi tra salti temporali che alternano la quotidianità familiare precedente al trauma e la lunga eco degli eventi successivi, intrecciando le vicende individuali dei protagonisti.
La ricostruzione di questo complesso mosaico, reso ancor più stimolante dalla peculiare prospettiva adottata, si configura come una sfida avvincente orchestrata dalla prosa incisiva di Ruol. Il lettore diviene così parte attiva di questo singolare meccanismo narrativo, chiamato a cercare attivamente i fili conduttori per orientarsi nel labirinto di voci inanimate. Solo al termine di questo percorso di scoperta che procede per indizi si arriva a chiudere il cerchio e a dare una forma definitiva a ciò che di andava via via dolorosamente intuendo.
Cattura immediatamente l’attenzione, in questo Inventario, la meticolosa cura con cui Ruol ha incluso persino gli oggetti più umili, come un tappo di champagne, un’antenna radio, una busta intestata, il raschiagiaccio, un innaffiatoio. Lungi dall’essere trascurabili, questi acquistano un significato inatteso, raramente elevato a simbolo, ma profondamente radicato nel quotidiano di un’esistenza condivisa, un susseguirsi di piccole epifanie che illuminano gli angoli della memoria portando in primo piano attimi di vita che allora parvero scorrere insignificanti, ma che ora, alla luce di quanto è successo, diventano quasi una catarsi. Queste apparizioni restano fisse, definite con la stessa precisione delle descrizioni che le accompagnano. In questo modo, il dolore non si trasforma in una vera e propria storia, ma rimane legato a una specie di inventario dettagliato della casa. Gli episodi vengono raccontati scegliendo e selezionando i momenti, quasi fossero isolati l’uno dall’altro, e condivisi come si farebbe mostrando le diapositive delle vacanze o l’album di foto agli ospiti.
Un elemento portante dell’architettura narrativa di quest’opera prima risiede in un latente sostrato teatrale, in una sottile messinscena che conduce il lettore con una strategia quasi occulta. Il narratore, figura ambigua tra demiurgo e regista, orchestra gli eventi sotto i nostri occhi, manovra le sue figure silenti nello spazio e nel tempo, con salti agili e compressioni significative, evocando un’oasi di quiete, distillando un’ora di felicità fugace, o spalancando l’abisso lancinante del dolore.
Era stato una nebbia appiccicosa, il dolore, che aveva aderito alle superfici delle cose e non si era più staccata. (..) Il dolore era diventato la sua vita; lui era diventato il dolore. Avrebbe voluto annullarsi, per poterlo eliminare. Si sarebbe voluto smontare – amputare – pezzo a pezzo, fino a trovarne il nucleo.
Pag. 166
In definitiva, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia si rivela un esordio potente e toccante. La sua forza risiede nella capacità di affrontare il tema universale del lutto attraverso una prospettiva inedita: un’analisi quasi chirurgica del vuoto lasciato dall’assenza, condotta con una lingua asciutta e precisa che paradossalmente amplifica l’emozione. L’innovazione del romanzo sta nel suo approccio narrativo, che affida agli oggetti e agli spazi il compito di evocare la memoria in modo frammentario ma profondamente suggestivo, offrendo al lettore un’esperienza immersiva e intima nel cuore del dolore. È una lettura consigliata a chi cerca una narrazione intensa, capace di esplorare le pieghe più nascoste dell’animo umano con una sensibilità rara e una forma stilistica originale.

Michele Ruol, di professione medico anestesista, scrive per il teatro e ha pubblicato racconti sulle riviste letterarie «Inutile» ed «Effe – Periodico di Altre Narratività», oltre che in raccolte a più voci, come L’amore ai tempi dell’apocalisse (Galaad), a cura di Paolo Zardi, e Il Veneto del futuro (Marsilio), a cura di Alessandro Zangrando. Il testo Betulla, prodotto dal Piccolo Teatro di Milano per il podcast Abbecedario per il mondo nuovo, è stato pubblicato nel libro omonimo edito da Il Saggiatore. Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è il suo esordio come autore di narrativa.


Un libro molto bello, originalissimo nella struttura
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Si, davvero bello. Mi ha conquistata.
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