Salvare e distruggere. Sei lezioni americane, di Viet Thanh Nguyen, Neri Pozza 2025, traduzione di Massimo Bocchiola, pp. 208

Mentre leggevo Salvare e distruggere, avevo l’impressione di entrare in una stanza già abitata da molte voci, alcune lontane nel tempo, altre sorprendentemente vicine. Per oltre un secolo, l’Università di Harvard ha affidato a grandi intellettuali e artisti il compito di riflettere pubblicamente sul ruolo delle arti nella vita collettiva. Scrittori, musicisti, pensatori hanno usato quello spazio non per offrire risposte definitive, ma per mettere in crisi il presente. Sapere che le riflessioni di Viet Thanh Nguyen nascono dentro questa tradizione, attraversata da figure come Borges, Calvino, Morrison o Eco, rende ancora più evidente la posta in gioco del libro: interrogare la letteratura non come esercizio astratto, ma come pratica viva, capace di incidere sul modo in cui oggi ricordiamo, raccontiamo e scegliamo da che parte stare.

Iniziando il libro, la prima sensazione è quella di trovarsi davanti a un libro che non concede riparo. Non accompagna il lettore per mano, non costruisce un sentiero lineare. Piuttosto, lo invita a sostare in un territorio di fratture: memorie che non combaciano, storie che si sovrappongono, voci che si contraddicono. È un libro che nasce da una domanda implicita e insistente: chi ha il diritto di raccontare, e a quale prezzo?

Questa domanda attraversa tutta l’opera di Viet Thanh Nguyen, scrittore e saggista vietnamita-americano, nato a Buôn Ma Thuột nel 1971 e cresciuto negli Stati Uniti dopo la fuga della sua famiglia dal Vietnam nel 1975. La sua biografia, segnata dall’esperienza dell’esilio e della doppia appartenenza, non diventa mai semplice materiale autobiografico, ma si trasforma in uno sguardo critico sulle narrazioni dominanti.

Nguyen, già noto al grande pubblico per il romanzo Il simpatizzante (Premio Pulitzer 2016, vedi mia recensione), torna qui a interrogare la letteratura non come spazio neutro, bensì come luogo di responsabilità. Scrivere, sembra dirci, significa sempre scegliere chi salvare e chi distruggere. Non in senso spettacolare o violento, ma nel modo silenzioso e persistente con cui le storie includono o cancellano.

Il saggio esplora il potere della letteratura, dell’arte e della politica, riflettendo sulla responsabilità dello scrittore di fronte alle tragedie della guerra, del razzismo e della disumanità, unendo analisi letteraria, storia e prospettiva personale.

La memoria non è innocente

Uno dei nuclei più forti del libro è la riflessione sulla memoria collettiva, in particolare quella legata alla guerra del Vietnam. Nguyen smonta con pazienza l’idea di una memoria universale e condivisa, mostrando come spesso ciò che viene ricordato sia il prodotto di una vittoria politica e culturale. La memoria, in questa prospettiva, non consola: seleziona, gerarchizza, impone un ordine.

La letteratura occidentale, e soprattutto quella statunitense, ha a lungo raccontato il Vietnam come trauma americano, relegando le voci vietnamite ai margini o trasformandole in comparse. Salvare e distruggere nasce proprio da questa ferita narrativa: non tanto dall’assenza di storie, quanto dalla loro distribuzione diseguale.

Chi ha letto Il simpatizzante riconoscerà in Salvare e distruggere la stessa tensione morale e politica. Anche nel romanzo, attraverso la voce ambigua e contraddittoria della spia senza nome, Nguyen smontava la logica binaria della guerra, mostrando come ogni ideologia tenda a divorare le proprie vittime. Se nel romanzo questa critica passava attraverso la finzione, qui assume la forma esplicita del saggio, senza perdere complessità.

Nguyen non propone una distruzione iconoclasta del canone, ma una sua riscrittura critica. Salvare, per lui, non significa conservare intatto; distruggere non equivale a cancellare. Sono gesti intrecciati. Salvare una voce marginale può implicare la distruzione di un punto di vista dominante che si era imposto come naturale.

Il libro diventa così anche una meditazione sul ruolo dello scrittore migrante, dell’autore che scrive da una posizione di scarto. Nguyen rifiuta tanto l’assimilazione quanto l’esotismo: non vuole essere la “voce autentica” da esibire, ma un soggetto critico capace di disturbare le aspettative.

Questo discorso dialoga anche con I rifugiati (vedi mia recensione), la raccolta di racconti in cui Nguyen esplora le vite sospese della diaspora vietnamita. Lì come qui, l’autore rifiuta tanto l’assimilazione quanto l’esotismo: non vuole essere la “voce autentica” da esibire, ma un soggetto critico capace di disturbare le aspettative.

Un’etica della narrazione

Ciò che rende Salvare e distruggere particolarmente interessante è la sua domanda di fondo, mai completamente risolta: che cosa dobbiamo alle storie che raccontiamo? Nguyen non offre formule rassicuranti. Al contrario, insiste sull’ambivalenza. Ogni atto narrativo è potenzialmente violento, ma anche necessario.

La letteratura, in questa visione, non redime automaticamente. Può fallire, può mentire, può essere complice. Eppure resta uno degli strumenti più potenti per immaginare una giustizia imperfetta, sempre in costruzione.

Perché leggere Salvare e distruggere oggi

In un presente saturo di narrazioni semplificate e identità ridotte a slogan, il libro di Nguyen invita a rallentare e a pensare. Non è una lettura comoda, né vuole esserlo. È un testo che chiede attenzione, autocritica, disponibilità a mettere in discussione il proprio punto di vista.

Forse il suo merito più grande è proprio questo: ricordarci che la letteratura non è solo un rifugio, ma anche un luogo di conflitto. E che, nel raccontare il mondo, siamo sempre chiamati a scegliere cosa merita di essere salvato e cosa, inevitabilmente, verrà distrutto.