INCIPIT
L’androne sembrava deserto. Dopo essere entrata, la vecchia esaminò il pavimento di marmo rosa, che giudicò di cattivo gusto, quindi sfilando tra due schiere di vasi cinesi percorse la stretta passatoia che la separava dal casotto del portiere. Quando fu di fronte al cristallo alzò gli occhi: seduto su una bassa sedia imbottita, un essere scimmiesco vestito come il factotum di un circo continuava imperterrito a leggere il giornale, facendo tremolare le mostrine che aveva sulle spalle ogni volta che sfogliava una pagina. Quell’individuo, congetturò la vecchia, esorcizzava la propria mediocrità trattando tutti con la medesima indifferenza. A meno che non fossero i panni che lei indossava a spingere alla mancanza di riguardo. Di
certo il portiere aveva intravisto il cappotto logoro cosparso di fili di paglia, nonché il cappello fuori moda fatto della stessa materia. In ogni caso non sarebbe riuscito a farle perdere tempo. Sollevò una mano trasformata in pugno ancor prima di essere estratta dalla tasca, la lasciò oscillare e percosse il cristallo con le nocche producendo un frastuono di vetraglia che invase l’ambiente, rotolò sul marmo rosa, sfiorò i vasi cinesi e sotto forma di eco tornò a colpirle le orecchie, con un effetto di cui si rallegrò. Solo allora il portiere ripiegò il quotidiano, staccò la testa dallo schienale e fece scivolare il vetro.
«Desidera?»
«Vorrei parlare con la signora Elena De Giorgi.»
«Settimo piano.»
Appena il portiere si tuffò di nuovo nella lettura del giornale, la vecchia si voltò: in un angolo scuro dell’androne le porte aperte dell’ascensore parevano attenderla. Raggiunse la cabina in pochi istanti, lasciandosi guidare dal tenue lucore che ne fuoriusciva, ma purtroppo, nell’attimo in cui entrò, il peso del corpo attivò il meccanismo dissimulato nella plafoniera. Un grosso tubo al neon prese ad accendersi e spegnersi con crescente convinzione finché ad un tratto, dopo una fase in cui pareva avesse rinunciato a funzionare, rischiarò con un lampo stabile e metallico l’esorbitante rigonfiamento che le deformava il cappotto all’altezza del seno.
Un’altra donna, nella stessa situazione, avrebbe tentato di rendere meno appariscente quella sorta di gobba eccentrica, magari incrociando le braccia sul petto: ma non lei. Si limitò a dare le spalle al portiere e a premere con calma un dito screpolato sul pulsante numero 7, l’ultimo, lieta di aver lasciato l’unica impronta visibile in quel paradiso di ottone, specchi e cromature. Subito dopo, l’ascensore diede uno scossone e dietro una tessera di plastica nera il numero dei piani iniziò a scorrere.
Mentre il sibilo dei motori testimoniava che l’ascensione verso l’attico procedeva a tutta velocità un odore di pane bagnato, granaglie sminuzzate e sterco si diffuse nella cabina, scatenandole un violento starnuto che appannò il centro dello specchio. Infastidita dal contrattempo la vecchia si soffiò il naso con un lurido fazzoletto a scacchi, poi torcendo il busto provò a pulire la superficie insozzata con il medesimo fazzoletto, ma l’operazione ottenne l’effetto opposto: sul vetro si allargò un alone denso e grigiastro che si seccò subito.
Ancora non aveva deciso se insistere, magari sacrificando un lembo della camicia, o rinunciare quando l’improvviso arrestarsi della cabina le regalò un senso di leggerezza che la riportò al tempo in cui era giovane. La corsa verticale era finita.
Fabrizio Ottaviani