«Lei è botanica e non guarda i fiori» disse alla fine. Nella sua voce non c’era aggressività né giudizio. «La mia poesia preferita è di Issa» continuò. La recitò in giapponese, poi la tradusse:

in questo mondo camminiamo

sul tetto dell’inferno

guardando i fiori

Una rosa sola, di Muriel Barbery, Edizioni E/O 2021, traduzione di Alberto Bracci Testasecca, pagg. 173, mia recensione

Più tardi l’autista li lasciò all’indirizzo del ponte che Rosa aveva varcato il giorno prima. Aveva smesso di piovere. Paul si appoggiò un attimo alla ringhiera di fronte alle montagne del Nord: blu scuro su fondo grigio, lanciavano grandi salve di vapore verso la volta invisibile. Alle loro spalle passava una folla numerosa di giovani a passeggio, turisti, uomini e donne ordinari impegnati in un’esistenza che Rosa trovava inaccessibile e crudele. Una maiko con lo sguardo serio e l’aria austera li sorpassò. «Il ponte di Sanjo frantuma sempre il mio cuore» disse Paul seguendola con gli occhi. (pag. 75)

Rosa non vedeva altro. Tutto intorno c’era una scena vegetale, brezza tra gli alberi, cespugli arrotondati, ma l’intera sua vita, i suoi anni e le sue ore stavano nelle linee curve che il rastrello aveva tracciato intorno a una grande pietra, a un’azalea e a un ciuffo di hosta posate su una sabbia così fine che incipriava lo sguardo. Da quella ellisse perfetta nasceva l’universo. La mente di Rosa danzava con la sabbia, ne sposava i solchi, girava intorno alla pietra e alle foglie e ricominciava. Non esisteva altro che quella passeggiata senza fine sull’anello dei giorni e del senso. (pag. 42)