Perché a volte sembra che un’unica strada porti alla felicità e alla disperazione, e allora che fare? com’è possibile vivere? (..) Da una parte quello che appare agli occhi di tutti, (..) dall’altra c’è un universo segreto. C’è tutto quello che tralasciamo di dire, che nascondiamo, che ci rifiutiamo di ammettere. È lì che risiedono le nostre paure. Tutto quello che speriamo e che non otteniamo, o che non abbiamo la forza di conquistare. Tu lo chiami il mondo della poesia, e lo prendi come pura finzione. Ma che ti piaccia o no, questa maledetta poesia a volte è l’unica cosa capace di definire l’esistenza per com’è davvero.(pag 153)

Storia di Ásta, di di Jón Kalman Stefánsson, Iperborea editore 2018, traduzione di Silvia Cosimini, pagg 479, copertina di Emiliano Ponzi, mia recensione

INCIPIT

Le pagine che seguono raccontano la storia di Ásta, che un tempo è stata giovane, e che ormai è piuttosto anziana nel momento in cui queste righe vengono scritte, o meglio, scribacchiate, perché qui accade tutto di fretta, anche quando, a volte, la storia procede con tale lentezza che il tempo è quasi sul punto di fermarsi. Tra poco spiegherò perché è stata chiamata Ásta. Perché i suoi genitori hanno scelto questo nome, e non Sigríður, María, Gunnþórunn, Auður, Svava, Jóhanna, Guðrún oppure Fríða, perché tutti nasciamo senza nome e immediatamente, o poco dopo, ce ne assegnano uno, perché la morte faccia più fatica a trovarci. Dammi un nome, e la morte mi troverà meno facilmente. Ma com’è possibile raccontare la storia di una persona senza toccare anche le vite che la circondano, l’atmosfera che sostiene il cielo – e soprattutto, è legittimo farlo?