Il destino dei pazzi, prima o poi, è quello di avere ragione.
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Grande meraviglia, di Viola Ardone, Einaudi 2023, pp. 304
Entrata in vigore 45 anni fa, il 13 maggio 1978, la legge Basaglia sancì la chiusura dei manicomi, riformando il sistema di cura per il disagio mentale, e segnando una svolta nel mondo dell’assistenza ai pazienti psichiatrici. Figlia degli anni ’70, periodo ricco di ricerche, dibattiti, e di importanti riforme socio-sanitarie, questa prende forma in un contesto dove la psichiatria aveva ancora un approccio strettamente organicistico: più che curato, il malato veniva preso in custodia, allontanato dalle proprie relazioni personali. Nei manicomi si veniva rinchiusi perché ritenuti pericolosi per sé o per gli altri, perché si dava pubblico scandalo, perché improduttivi, poveri, affetti da dipendenze, perché malati di epilessia. Madri, figlie, sorelle definite “spudorate”, “libertine”, donne che si ribellavano ai dettami del matrimonio o che commettevano adulterio, potevano essere internate.
In Italia la maggior parte dei manicomi venne costruita come alternativa al carcere: edificati ai margini delle città, in periferia, in queste strutture i contatti con l’esterno erano ridotti all’osso, si veniva relegati all’isolamento, alla coercizione e alla contenzione fisica, e si veniva divisi non per solo ‘pericolosità’, ma anche per sesso. Un annullamento fisico e psichico che culminava nelle cure e nei trattamenti: elettroshock, docce gelate, camicie di forza, lobotomie, insulino-terapia e letti di contenzione.
A mettere l’accento sui metodi e le logiche manicomiali fu Franco Basaglia, che il 16 novembre 1961 arriva a Gorizia come nuovo direttore dell’ospedale psichiatrico provinciale, dopo un’esperienza come docente all’Università di Padova. Non allineato al clima del periodo, criticato e giudicato rivoluzionario per le sue tesi, la sua fu una ‘punizione’ mascherata da promozione: a Gorizia, a fronte di individui senza più volto, nome e storia, ‘matti’ costretti all’emarginazione e alla cattività, sottoposti alla violenza dell’oblio, Basaglia decise di ‘aprire le porte’. (Fonte)
Il romanzo di Viola Ardone – che come nelle sue altre opere costruisce attorno a temi di rilevanza sociale – prende spunto da questo contesto narrando le vite intrecciate di uno psichiatra basagliano e di una giovane paziente rinchiusa in un manicomio. Elba, la giovane, è figlia di una donna che era stata internata per infedeltà al marito; non era pazza la madre, né tantomeno la figlia, la cui unica colpa era quella di essere nata nell’istituto.
L’approccio di Fausto Meraviglia, lo psichiatra protagonista, il “dottorino”, si scontra con quello del vecchio primario, Colavolpe, fedele alla linea e contrario al cambiamento: la loro compresenza al Fascione (l’istituto), che Elba chiama il “mezzomondo”, sfocia in duri contrasti; quando Colavolpe capisce che ormai non si torna indietro, lascia campo libero a Meraviglia che gestisce il passaggio, cercando di salvare più persone possibile, e scontrandosi con un sistema che opponeva grande resistenza al cambiamento.
La legge 180 sulla chiusura dei manicomi era stata approvata quattro anni prima, alcuni di noi facevano esperimenti di liberazione e li pagavano di tasca loro: denunce, deferimenti, trasferimenti coatti.
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Ambientato tra il 1982 e il 2019, il romanzo affronta con chiarezza e delicatezza questo momento epocale, un cambiamento che andava a scontrarsi con le resistenze dei baroni della psichiatria e di un sistema sanitario che non ammetteva approcci differenti; un momento delicato perché la chiusura dei nosocomi comportava anche un grande sforzo nella gestione dei pazienti una volta liberati. Infatti nella vicenda di Elba, Ardone fa emergere la difficoltà di chi aveva a lungo abitato quei luoghi a reinserirsi nella società (che, per inciso, era ancora scettica e intimorita); non conoscendone altri, il mondo esterno, quello dei “mica-matti”, faceva paura. Elba poi aveva trascorso qualche anno in un istituto di suore che erano riuscite a farle rimpiangere persino i sistemi punitivi del manicomio; dunque non vuole andarsene dal “mezzomondo” perché è la sua casa, e soprattutto li c’è la sua Mutti (la mamma fuggita dalla Germania e sposata con un aristocratico napoletano che poi l’ha ripudiata); in quel micro-cosmo Elba ha la sua famiglia, fatta di altre donne rinchiuse e del personale che ci lavora, altrettanto alienato.
Il romanzo si avventura anche nel tema della ribellione delle donne, direttamente consequenziale all’approccio terapeutico; la ribellione alla legge del patriarcato, perché un marito che voleva ripudiare la moglie non aveva nemmeno bisogno del divorzio, poteva farla internare senza troppa fatica, bastava il certificato di un medico compiacente. “Era una buona alternativa al divorzio”, dice Meraviglia.
Nel 2019 Meraviglia ha settantacinque anni, è stato lasciato dalla moglie ormai da trent’anni e non ha rapporti con i due figli; Mattia si è fatto prete e Vera, dopo avere lasciato la famiglia a diciotto anni, si è costruita una sua vita, e ora gli lascia una volta alla settimana il nipotino ma non vuole avere contatti con lui: entrambi gli rinfacciano di essere stato un padre poco presente, e allo stesso tempo di avere voluto manipolare le loro vite, e soprattutto di essere stato troppo intento a costruire il mito di se stesso.
L’infelicità degli altri, alla fine, ti entra nella radice dei capelli, si insinua sotto le unghie, è un tartaro che si incrosta tra denti e gengive, resistente come il calcare sulle fughe delle mattonelle del bagno, a lungo andare ti consuma fino a farti sanguinare i pensieri. E io l’ho praticata per troppo tempo.
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Meraviglia ha vissuto inseguendo un sogno, ha fatto di tutto per realizzarlo e in parte ci è anche riuscito; credere in un ideale, spendere la propria vita per realizzarlo e dimostrare che si può percorrere una via diversa, è stato il suo modo di vincere la sfida con “questa meraviglia che è la vita”, di inseguire la libertà. Il prezzo che ha pagato è stato il fallimento nei legami familiari. Ora, da anziano sfiduciato, quasi deciso a lasciare questo mondo, si domanda che cosa faranno le nuove generazioni.
E i giovani di oggi cosa lasceranno, Alfrè? (..) In cosa credono, mi sai dire, nel diritto a giga illimitati? E’ questa la libertà a cui aspirano?
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Quello che manca di più a Meraviglia però è il contatto con Elba, che lui ha aiutato dopo la chiusura del manicomio, ospitandola in casa sua e facendola studiare fino al giorno in cui è scomparsa. Elba è diventata una figlia, la figlia che avrebbe voluto che Vera fosse; il suo amore ha cercato di plasmare il futuro di Elba, ma era ciò che Elba davvero voleva? O era la proiezione degli ideali di Meraviglia? E ora, Elba dove sarà?
Elba che porta il nome di un fiume del nord, che sa decifrare il mondo in rima, conosceva solo una parte del mondo, quando ha incontrato Meraviglia. Ma aveva già imparato tanto a proposito della vita e di come va il mondo, come possiamo capire dai suoi ragionamenti.
La verità è che non c’è tanta differenza tra matti e mica-matti. Tutte le vite vanno da qualche parte, e quelle che vanno a marcia indietro finiscono qui.
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Dopo la sparizione di Elba, a Meraviglia è rimasto il libriccino su cui la ragazza annotava le sue diagnosi: il suo Diario dei malanni di mente. Fausto avrebbe voluto che Elba diventasse davvero una terapeuta, ma non ha capito che la ragazza aveva bisogno di lasciarsi alle spalle tanto dolore, di trovare una sua dimensione per essere di aiuto a sé e agli altri.
Un romanzo davvero notevole, la conferma, per chi ne avesse ancora bisogno, del talento di una autrice capace di affrontare temi difficili con tanta maestria; senza lasciarsi tentare dal facile approccio buonista e lacrimevole, affrontando verità scomode attraverso personaggi convincenti. Scrivendo una storia di crescita e affermazione, di ricerca della libertà e di umana finitezza.
Con questo e gli altri due romanzi Viola Ardone racconta l’Italia del Novecento molto più di quanto un libro di storia potrebbe fare. E lo fa con una lingua diretta, scorrevole, poetica e solida.
Qui potete leggere l’incipit del romanzo.
Le altre recensioni:
Viola Ardone, Oliva Denaro
Viola Ardone, Il treno dei bambini


Mi ha stomacato…
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Addirittura 😬😬😬😬
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Leggerò senz’altro qs libro.ho letto il treno dei bambini e ho scoperto una grande scrittrice: storie nella storia……
Notevole sensibilità e umanità. GRAZIE D TUE PRESENTAZIONI
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Grazie Olga, condivido i tuoi pensieri 🤗
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Bellissima recensione… Appena preso il libro 📖
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Allora buona lettura!!! Mi farà piacere sapere poi se ti è piaciuto.
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Grazie per la citazione in questo bell’articolo.
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