Tra le case editrici da cui pesco molte letture c’è Iperborea, che con i suoi autori del nord Europa mi fornisce molti spunti. Tra questi ho scovato Fair play di Tove Jansson, un bellissimo romanzo.

Fair play, di Tove Jansson, Iperborea 2017, traduzione di K. De Marco, pagg. 160

Il fair play è l’equilibrio che mantiene saldo il legame tra Jonna e Mari, due donne che vivono un rapporto di amicizia e di amore, un legame affettivo e intellettuale ma soprattutto di amicizia al femminile, profondo, radicato, che non ha bisogno di sovrapposizioni o prevaricazioni, ma che dura soprattutto grazie al rispetto. L’amicizia, un sentimento che Jonna ammira, che spesso è più letto come un legame al maschile: quanti esempi, in letteratura o al cinema (come nei film western, osserva), di amicizia marmorea tra uomini, tale da spingere anche al sacrificio della propria vita? L’amicizia, un connubio tra vicinanza e distanza, il completarsi senza sovrapporsi, venirsi incontro a volte scontrandosi ma rispettandosi.

Jonna è una regista in pectore, con la sua Konica fedelmente accanto a riprendere momenti esperienziali di viaggio, di vita vissuta, di persone incontrate. Il suo lato di concretezza si esprime attraverso la manualità che la porta a dipingere ma anche ad aggiustare oggetti, barche, ad intagliare il legno, a costruire cornici; a volte appare perfino spregiudicata, come nella sua visione dell’utilità di sapere maneggiare un’arma e non avere timore ad usarla. Si mostra più decisa e sicura di Mari, che forse un po’ le invidia questa apparente sicurezza: “Tu fai solo quello che hai voglia di fare”, le rinfaccia. Mari è una scrittrice e una illustratrice, ha un animo sensibile ed è molto insicura, guarda alla vita con molte più domande che risposte. Non ha però dubbi su cosa sia fondamentale per la sua amica, e, in fondo, per se stessa.

Ci sono persone che non vanno disturbate nelle loro inclinazioni, nelle grandi come nelle piccole cose”, pensa Mari.

“Poter lavorare in beata solitudine al riparo dalle intromissioni. Poter giocare e creare con materiali di ogni tipo, un gioco che all’improvviso, e senza motivo apparente, diventa così trascinante da escludere ogni altra attività.(…) Passare ostinatamente giorni e notti a leggere o a non fare altro che ascoltare musica”.

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Rispettare gli spazi e i tempi, affinché si possa esprimere se stessi e la propria vena creativa: un concetto fondamentale se le due donne che vivono questo rapporto sono anche due artiste. Far sì che si possa rimanere ciascuna se stessa eppure un armonioso “noi”.

“Ci sono spazi vuoti che vanno rispettati, periodi spesso molto lunghi in cui non si arriva a vedere l’insieme del disegno o a trovare le parole giuste e si ha bisogno di essere lasciati in pace.”

Un sentimento che è nutrito da interessi in comune, da passioni e da idiosincrasie.

Guardare i film d’autore, Fassbinder, Renoir per esempio, e discuterne; i film muti e in bianco e nero, Chaplin soprattutto, ma anche film più scadenti, o film western di serie b, come li definisce in modo divertente Jonna, nei quali riesce comunque a trovare un’utilità. Andare alla ricerca dei cimiteri, come piace a Mari.

Anche i luoghi dove vivono esprimono vicinanza e al contempo solitudine, nell’atelier-casa al porto di Helsinki, e nella casetta sull’isola disabitata sperduta nel mare.

“Abitavano ai capi opposti di un grande caseggiato vicino al porto e tra i loro atelier c’era la soffitta, un’impersonale terra di nessuno di alti corridoi con porte di legno chiuse a chiave su entrambi i lati.”

Il libro ha secondo me un aspetto “cinematografico”: una carrellata di scene conchiuse in se stesse, ma collegate e correlate. Come se fossero state riprese con la Konica di Jonna. Episodi delle loro vite raccontate in breve sequenza, immagini rivelatrici, piccole epifanie quasi sottotono ma in realtà perfettamente centrate a cogliere un significato assoluto, dialoghi asciutti, apparentemente semplici, dove in poche battute si arriva al nocciolo.

La solitudine delle soluzioni abitative è bilanciata dai racconti di viaggi, come in Corsica e negli Stati Uniti, dai personaggi che hanno incrociato le loro vite. Il ricordo appaiato dei due padri con lo stesso nome; la cameriera Verity a Phoenix che si premura di riordinare la camera e la sua amica barista Annie che le accoglie nel suo pub al grido di “Fate spazio alle signore! Vengono dalla Finlandia!”. Su tutti l’affascinante burattinaio, ultranovantenne che da giovane, con la sua bellezza, faceva girare le persone per strada, e che riesce a riprodurre le mani in un modo mirabile, che lascia Mari senza parole. Proprio per bocca di Władysław il burattinaio, l’autrice ci offre la sua visione:

“In fondo, quello che conta è questo: non stancarsi mai, non cadere nell’indifferenza, non perdere l’interesse né la propria inestimabile curiosità – sarebbe come arrendersi alla morte. È semplice, no?”

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Ci si riallaccia a quella che è la filosofia di vita di Tove Jansson: lavoro e amore. Non stancarsi mai di lavorare, di seguire gli stimoli e le inclinazioni, di coniugarli all’amore che si profonde in ciò che si fa, per farlo al meglio, e per godere della vicinanza sentimentale con un’altra persona.

Come quando parlando dei rispettivi padri, Jonna dice:

“«È strano, in fondo sappiamo così poco. Non si facevano mai domande, non si cercava di scoprire le cose che contavano davvero. Non ne avevamo il tempo. Ma cosa avevavamo da fare di tanto importante, poi?»

«Il lavoro, probabilmente», suggerì Mari. «E innamorarsi, quello porta via un sacco di tempo. Ma vremmo potuto comunque chiedere.»”

Come nella vita della scrittrice Tove Jansson, considerata un “monumento nazionale”, morta nel 2001 a ottantasette anni, di cui quaranta condivisi con l’artista grafica Tuulikki Pietilä, viaggiando e lavorando fra Helsinki e una minuscola isola nel mare aperto dell’arcipelago finlandese, proprio come Jonna e Mari.

Sul blog, Qui, trovate l’incipit. Buona lettura!

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