Stiamo attraversando un’epidemia e curiamo quelli che costano meno, lasciamo perdere i vecchi, perché costano di più. Distinguiamo tra le morti “inaccettabili”, perché i pazienti sono giovani e intelligenti, e le morti “accettabili”, perché i malati sono vecchi, hanno altre patologie, o sono dementi. Con questa giustificazione economica della morte muore la nostra civiltà.

A ottant’anni se non muori t’ammazzano, di Ferdinando Camon, Apogeo Editore 2020, pagg. 92

Perché se la malattia comincia a toccare i bambini, allora è una cosa seria, da combattere con tutti i mezzi, senza badare ai costi. (..) Questo mi fa piacere, è bello vivere in un popolo che protegge i piccoli, però se permettete mi deprime anche, perché i vecchi cosa sono? La mortalità tra gli ultraottantenni si aggira sul 14 per cento, ma è un dato che non si cita mai, nessuno lo conosce, lo conosco io perché mi riguarda. E allora mi chiedo: gli ottantenni non contano? Sono considerati già morti? Non hanno più importanza per la società, per la scienza, per la medicina, per la sanità, per l’informazione, per le famiglie? La loro vita è oggettivamente meno preziosa? È meno ricca di sentimento, di sensibilità, di preoccupazioni, di amore, di relazioni?

La citazione è ripresa da un articolo a firma di Ferdinando Camon su La Stampa, che raccoglie le sue riflessioni.

Il titolo di questo pamphlet ammicca in modo provocatorio a ciò che è stato sotto gli occhi di tutti durante la fase acuta della pandemia. Ripercorrendo i fatti che si sono verificati nei mesi scorsi, Camon mette in discussione il nostro modello di società, i valori etici e politici, le relazioni familiari, il sistema sanitario, che hanno accompagnato questo infausto evento. Riflessioni che stridono con l’ipocrita mantra del “ne usciremo migliori” e fanno invece da cassa di risonanza di una società in declino.

Nell’inconscio di chi sente o legge la morte di un vecchio si fa strada il concetto che la morte di un uomo anziano sia un atto di giustizia: l’anziano non rende nulla ma prende molto, ha molti bisogni, cure, medicine, affetti, e nessuna utilità. Una famiglia con un anziano, specialmente se disabile, è un organismo paralizzato, ha una palla di piombo al piede. (pag 19)

Ferdinando Camon scrive un diario della pandemia accorato, sincero, turbato: sulla scia degli eventi che la cronaca aggiorna, lo scrittore annota le sue riflessioni. A tutto campo, con sferzate decise, a volte incredulo, altre sdegnato per ciò che avviene, per ciò che la nostra società sta dimostrando di essere, per lo spudorato asservimento a logiche che di umano hanno ben poco. Un libro da leggere ora, per riguardare indietro a questi terribili mesi e per cercare di fare un passo indietro, per ripensare a cosa sia la vita e quale sia il suo vero valore.

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Ferdinando Camon è nato nel 1935 in un piccolo paese della campagna veneta, a due passi da Vo’ Euganeo. Il suo primo romanzo, uscito con una prefazione di Pier Paolo Pasolini, è stato subito tradotto in Francia per interessamento di Jean-Paul Sartre. Nei suoi libri Camon ha raccontato la crisi e la morte della civiltà contadina (nei romanzi Il quinto statoLa vita eternaUn altare per la madre, Premio Strega, Mai visti sole e luna, Premio Stazzema, e nelle poesie Liberare l’animale, Premio Viareggio, e Dal silenzio delle campagne), la crisi che si è nominata terrorismo (Occidente), la crisi che porta in analisi (La malattia chiamata uomoLa donna dei filiIl canto delle balene) e lo scontro di civiltà, con l’arrivo degli extracomunitari (La Terra è di tutti). I suoi romanzi più recenti sono La cavallina, la ragazza e il diavolo (2004, Premio Giovanni Verga) e La mia stirpe (2011, Premio Vigevano-Mastronardi). Nel 2019 è uscito da Ediesse Tentativo di dialogo sul comunismo, con Pietro Ingrao. Nello stesso anno Guanda ha pubblicato Scrivere è più di vivere

È tradotto in venticinque paesi. Le sue opere sono pubblicate anche in edizioni per ciechi, in Italia e in Francia. Nel 2016 gli è stato assegnato il premio Campiello alla Carriera.

INCIPIT

Se il capo del governo interrompe i programmi televisivi per leggere un messaggio alla nazione senza averlo preannunciato, è un momento grave. Gravissimo se il discorso è improvvisato, ripetitivo, mediocre: vuol dire che il capo del governo lo ha deciso lì per lì, lo ha scritto in fretta, non se l’è fatto controllare da nessuno, non sa cosa fare, si sente costretto dagli eventi. Allora il discorso in tv, a reti unificate, ha l’effetto di un pugno alla mascella: ci fa schioccare i denti e ruotare gli occhi. Dice che c’è un virus intorno a noi, non sappiamo che cos’è, è la prima volta nella storia che lo incontriamo, chi lo tocca può morire. Dove siamo adesso, cioè nella nostra casa, non c’è, a meno che non l’abbiamo già toccato fuori con le nostre mani, perciò dobbiamo restare in casa. Tutti, nonni, padri, figli. Andare fuori casa è proibito e inutile, da adesso i negozi sono chiusi, le scuole sono chiuse, le università sono chiuse, chiusi i posti di lavoro, gli uffici, le fabbriche, chiusi i servizi. Resteranno aperti solo i negozi senza i quali moriamo, cioè alimentari e farmacie. Ma ci potremo andare solo uno per famiglia, una volta ogni tot giorni. Quel che compriamo dovrà essere “essenziale”, i carabinieri formeranno dei posti di blocco per controllarci.

Saremo puniti con multe salatissime, o con l’arresto. D’improvviso, senza aver neanche capito bene perché, siamo prigionieri. Di chi? Fino a quando? Nessuno lo sa.