Vedo la vita come un esercizio solitario, una traversata senza meta, un viaggio su un lago calmo e insieme nauseabondo. La maggior parte del tempo galleggiamo. A volte, sotto l’effetto del nostro peso, scivoliamo verso il fondo. Quando lo tocchiamo, quando sentiamo sotto i piedi la sostanza vagamente molle e nauseante delle nostre origini, proviamo una paura ancestrale. Una vita non è mai solo questo. Un esercizio di pazienza, con sempre un po’ di melma in fondo al vaso. (pag. 121)

Una vita francese, di Jean-Paul Dubois, Rizzoli 2006, traduzione di Annalisa Crea

Paul Blick, protagonista e voce narrante del romanzo, è prima di tutto un figlio della Quinta Repubblica. La storia della sua vita si confonde con quella di una Francia che credeva in de Gaulle dopo il 58 e Pompidou dopo il 68, offerta a Giscard prima di portare al potere Mitterrand, per gettarsi finalmente tra le braccia di Chirac.

Nipote di un pastore dei Pirenei per parte di madre e di una facoltosa famiglia dell’alta borghesia per parte di padre, figlio di una redattrice/correttrice di bozze e di un concessionario Simca a Tolosa, Paul Blick racconta la sua vita scandendo i capitoli con l’avvicendarsi al potere dei presidenti della Quinta Repubblica. E la vita di Paul, in tutto questo? La sua vita è segnata nell’infanzia da un lutto che cambia completamente gli equilibri familiari: il fratello maggiore Vincent muore per una appendicite all’età di dieci anni. Quel fratello – maggiore di due anni – su cui lui e tutta la famiglia avevano riposto ammirazione e fiducia, quello che per Paul era il saldo appiglio aggrappato al quale affrontare la vita, viene a mancare lasciando un vuoto impossibile da colmare.

Liceale al tempo del Sessantotto, Paul vive in presa diretta il terremoto che in quegli anni di rivoluzione ha cambiato definitivamente il volto della Francia.

Una generazione avida di equità, di libertà, ansiosa di prendere le distanze dai suoi dèi e dai suoi vecchi maestri. Una generazione lontana anni luce da quella precedente. Forse non ci fu mai nella storia una rottura così violenta, brutale e profonda nel continuum di un’epoca. Il 1968 fu un viaggio intergalattico, un’epopea molto più radicale della moderna conquista spaziale americana che ambiva semplicemente ad addomesticare la luna. (pag. 46)

Dopo aver scoperto le gioie del sesso nel letto di una teenager inglese, studia come si studiava nel Sessantotto, voto politico e molta propaganda, diventa per caso giornalista sportivo e sposa Anna, la figlia del suo capo – che è anche un imprenditore nel ramo piscine – dopo averla “soffiata” ad un amico che la considerava al pari delle sue auto sportive e della barca. 

Lei, geniale imprenditrice sulle orme del padre, seguace di Adam Smith, una donna votata al lavoro, gli concede di mettere al mondo due figli, senza però ritenersi coinvolta nella loro educazione né accudimento. Un’occasione per Paul di dedicarsi alla vita domestica: un’immersione a capofitto nella gestione di casa e bambini che lo tiene alla larga dal dovere prendere decisioni in merito al suo futuro lavorativo. Una fuga, felice e spensierata. Paul conduce comunque una vita erotica tanto intensa quanto segreta ed è appassionato di alberi, che sa fotografare come nessun altro.

Grazie ad un contatto del suocero, gli viene commissionata la realizzazione dapprima di un volume di fotografie sugli alberi di Francia e poi su quelli del mondo. Inizia per Paul un periodo fortunato: può lavorare da solo, senza contatti con gli altri umani – cosa che maggiormente lo indispone – viaggiare per mesi, tenersi alla larga dalle responsabilità coniugali e filiali. Facendo quello che più gli piace e riscuotendo, una volta realizzati i volumi, un enorme successo, che gli permetterà di mettere da parte quanto basta per una vita intera.

Ma il suo tirarsi fuori da tutto e da tutti – tranne che dal legame con i genitori – alla fine non lo metterà al riparo dai conflitti.

Una vera serie nera – crollo della borsa, bancarotta, un incidente mortale, follia – porterà a questa commedia francese un epilogo degno di un’antica tragedia. Divenuto un giardiniere malinconico per necessità contingenti, Paul Blick si congeda discretamente dalla vita oscillando tra il suo amato nipote e la figlia schizofrenica.

Io, che  mi ero sempre ritenuto in grado di resistere alle tentazioni e alle pressioni di un sistema a volte brutalmente affascinante, a volte sottilmente autoritario, mi rendevo conto di essere stato travolto, come gli altri, dall’energia cinetica del corpo sociale. A tempo debito, avevo superato tutte le tappe della vita di un piccolo borghese. Studente per ottenere la laurea, libertario nell’ora di ricreazione, libertino per il tempo di un brivido, poi subito rimesso in carreggiata da un buon matrimonio, zavorrato di due solidi bambini e, infine, notevolmente arricchito. Dopotutto, ero stato un buon allievo. Invece di addestrarmi o fustigarmi, il sistema, come la casa di Anna, aveva deciso di digerirmi. (pag. 209)

Se troviamo in questo romanzo la maggior parte dei temi fondanti della narrativa di Jean-Paul Dubois – medici sadici, donne prepotenti, disalleanze e tradimenti coniugali , per non parlare degli essenziali tosaerba – scopriamo una costruzione romantica il cui scopo contrasta con il laconismo degli altri suoi libri. Ammiratore di Philip Roth e John Updike, Dubois scrive un romanzo il cui respiro non ha nulla da invidiare alle grandi saghe familiari, in una traversata del secolo condotta con disincanto eppure partecipata. 

Come ci si affeziona a questo eroe imperfetto? È che la sua verità sta nel non detto, inscritta nella sua recitazione di un ruolo, come un burattino malinconico a cui, alla fine, tutto riesce e che sopravvive a tutto, che passa attraverso crolli finanziari o esplosioni del mondo in modo quasi fluido. Naturalmente, come in tutti i romanzi di Dubois, l’eroe assomiglia ai suoi predecessori: marito accasciato, amante pigro, padre assente, lavoratore stanco. È infatti la cronaca di un malessere generale e di una incomunicabilità assoluta che “Una vita francese” sviluppa brillantemente. Ma il contesto mutevole e avanzato dei tempi gli conferisce una dimensione aggiuntiva. C’è la scrittura vivace, corsiva, increspata, l’umorismo giubilante tra le righe, l’ironia sardonica stile bisturi, la beffa stile cesoie: tutto ciò che può ferire l’eroe o gli eroi e che il lettore, invitato nel ruolo di voyeur complice, adora.

Si resta attaccati ad un libro di quasi quattrocento pagine serrate fino alla fine, attaccati a questa storia densa, eclettica, variegata, che, in fondo, racconta la storia di una generazione, che rivela difetti con un attivo pessimismo, libera dalle paure, dalle fascinazioni, dalle ossessioni.

Un grande libro? Non lo so, ma credo di sì. Di sicuro un libro che ti tiene in scacco, anche quando Paul Blick ti dà sui nervi.

L’amore è uno di quei sentimenti sofisticati che abbiamo imparato a sviluppare. Fa parte dei divertimenti oppiacei che ci aiutano a pazientare in attesa della morte. (pag. 210)

Qui potete leggere l’incipit.