INCIPIT
Guarda che è nato
25 febbraio 1990
Quando la mattina mi ero ritrovato da solo in casa, avevo pensato si fossero già dimenticati di me. Sentivo bruciare la gola e un po’ di brividi mi rigavano la schiena. Quella era la solitudine. Non mi avevano svegliato perché forse erano già andati a vivere da un’altra parte con te, il loro figlio nuovo. Chissà se sarebbero tornati a prendermi, io ero arrivato prima eppure questo sembrava non contare niente. Mi guardavo attorno come i bambini che si perdevano al mare e il babbo doveva chiamarli dall’altoparlante in filodiffusione su tutta la spiaggia.
Saresti dovuto nascere intorno all’inizio di febbraio, ma la mamma aveva riempito il borsone con la biancheria da portare in ospedale tanto tempo prima. Si metteva in piedi davanti alla credenza della camera esaminando tutto pezzo per pezzo e salendo sulla scala per trovare la vestaglia nascosta nella parte più alta dell’armadio. I pioli le traballavano sotto i piedi, ma non poteva aiutarla nessuno perché quello era un altro dei suoi riti. Doveva fare tutto da sola e tirare fuori esattamente i vestiti di dieci anni prima, quando stavo per nascere io e c’era ancora la nonna Chiara. Il babbo non capiva, ma la lasciava fare perché non aveva voglia di discutere. Io e lui uscivamo a passeggiare sul Porto Canale, popolato dagli anziani seduti sulle panchine a parlare ad alta voce di quanto si stava bene una volta. Quando tirava il garbino che prometteva burrasca, mi riparava con il bavero del giaccone e mi sentivo protetto anche se si bagnavano i capelli. Nonostante i pescherecci ormeggiati fossero vuoti, l’odore del pesce si mischiava a quello dell’acqua salata e impregnava la strada e le persone. Al babbo piaceva guardare le case basse, tutte di colori diversi, e immaginare la vita di chi abitava là dentro. Dalle finestre aperte sbirciava i soffitti e i mobili alti fino a coprire le pareti. Qualche volta riusciva a intravedere una donna bionda che parlava al telefono e mordeva il filo arricciato della cornetta. Non sapeva se esistesse davvero o se fosse una sua fantasia perché non l’aveva mai incontrata fuori da lì. Spesso pensava di suonare il campanello e scavalcare l’asse di legno messa davanti alla porta per non far entrare l’acqua del canale, ma non succedeva mai. Ci fermavamo al bar dei Marinai, lui leggeva in fretta la prima pagina del «Resto del Carlino», io mi annoiavo.
La mattina di quando eri nato, il babbo si era accorto della mia arrabbiatura da come avevo aperto la porta.
«Ciò, ma non mi chiedi niente? Guarda che è nato».
Io stavo in silenzio sul divano con la testa posata sulla mano sinistra stretta a pugno, una gamba piegata e l’altra stesa. Non lo potevo sapere ancora, ma quello era il primo indizio della nostra somiglianza. Mi aveva chiesto se avessi già fatto colazione, mettendo su la moka per il caffè e cercando nel frigo uno yogurt alla fragola, poi aveva preso l’elenco telefonico per avvisare le ultime persone che ancora non lo sapevano. Nel frattempo, ero entrato in cucina, avevo posizionato una sedia sotto al calendario e ci ero salito sopra facendo attenzione a non cadere. Nella riga del 25 febbraio avevo scritto: «GULLIT».
Il nostro pulmino rosso Bedford era parcheggiato esattamente davanti al cancello, con ancora dentro la poltroncina, ormai tutta sporca, che stava in salotto prima che la mamma rimanesse incinta. Il mal di schiena non la lasciava stare e non riusciva né a sedersi sui sedili anteriori né a stendersi su quelli posteriori, così il babbo aveva liberato il retro del pulmino per sistemarci nel mezzo la poltrona, fissandola con due pesi. Era stato l’unico modo per farla stare comoda e portarla in giro.
«Adesso la posso anche buttare via», mi aveva detto sorridendo.
Dopo aver parcheggiato dietro la chiesa di San Giacomo ci eravamo avviati a piedi. Io, ancora arrabbiato, non dicevo una parola, lui camminava velocemente. Aveva tagliato per il vicolo che portava direttamente al porto, fino ad arrivare da Signani, il fiorista. Il negozio era chiuso, ma bastava suonare alla casa di fianco, dove abitava.
«Questo è il più colorato che potevo: giallo, rosso, verde, rosa. L’ha fatto la mia moglie».
Il babbo gli aveva allungato cinquantamila lire attendendo il resto, poi eravamo ripartiti in fretta verso il chiosco della Nadia, accanto all’hotel Pino. Durante il viaggio verso l’ospedale di Cesena non avevo fatto domande, ascoltando le voci e la musica di Radio Melody.
La mamma mi aveva subito detto di andare lì vicino a darle un bacio, annusando i fiori e appoggiandoli velocemente sul tavolino di fianco.
«L’hai portata?», aveva detto guardando il babbo.
Non sentiva il sapore di una piadina con il prosciutto crudo da nove mesi. Mangiava con le mani, in fretta, il grasso che le pendeva dalle labbra, morsi enormi che non masticava ma deglutiva.
«Non saluti tuo fratello?», mi aveva detto con la bocca ancora piena, indicando la culla accanto al letto.
Muovevi la testa con la faccia completamente arrossata. Ti avevo messo il dito indice sulla mano piccolissima e tu l’avevi stretto appena, iniziando a piangere. Ero nervoso, mi sudavano le mani, non sapevo come si faceva a conoscere un bambino appena nato. Tutta quella sensazione di abbandono era sparita in pochi secondi perché i tuoi occhi dicevano una cosa ben precisa: non mi sarei mai più sentito solo. Non mi importava più che non mi avessero svegliato, non mi importava più di essere rimasto a casa senza sapere nulla, perché adesso ero diventato tuo fratello.
«Oh, ciao, Gullit», ti avevo detto
Francesco Zani