INCIPIT
Indugiai sulla porta della stanza, la sua eccessiva magrezza metteva a disagio. Seduto su una sedia a rotelle, guardava fuori dalla finestra toccandosi il naso con la mano. Ripeteva il gesto a intervalli regolari, contando tra una volta e l’altra, fino a quattro, forse cinque. Gocce di pioggia sporca colpivano il vetro. Cercai di ritrovare il ragazzo di un tempo tra le pieghe diafane del suo corpo, ne scontornai i tratti, ma nulla emergeva dalla violenza di quella immagine. Le sue mani, tenute in grembo, stringevano dei fogli di carta. Sul piccolo comodino accanto al letto, un libro di Pamuk, una bottiglia d’acqua e un bicchiere di plastica ancora pieno per metà. Bussai. Si girò e sorrise.
«Con questo tempo deve essere stata un’impresa arrivare fin qua».
«All’incirca».
Non aveva mai amato le menzogne, inutile iniziare in quel momento.
«Sei anche uscito prima dal lavoro» aggiunse scuotendo la testa.
Mi affrettai nel raccogliere la sua roba senza rispondere.
«Te lo ha chiesto Stefania, vero?»
Scorsi quella timidezza antica da gentiluomo che da ragazzi scambiavamo per goffaggine.
«Cosa dicono i dottori?»
Mi pentii un secondo dopo aver aperto bocca. Fece una smorfia, si asciugò la fronte e sventolò i fogli che aveva in mano.
«Non si pronunciano».
«Che vuol dire “non si pronunciano”, scusa?»
«Significa poco tempo, ecco che significa, molto poco…»
Mi passai la mano nei capelli. Un’infermiera minuta entrò portandosi dietro un voluminoso faldone che quasi la sovrastava:
«Paolo Pancaldi?» chiamò, poi consegnò il foglio di dimissione.
Prima di uscire chiese se c’era bisogno di qualcosa con la voce indifferente di chi ne aveva già visti tanti come lui. Tirai su la borsa in pelle e gliela posi sulle ginocchia. Fissava il vuoto con un’espressione che non riuscivo a decifrare. Avrei voluto abbracciarlo, ma non avevo la forza di interrompere i suoi pensieri, così iniziai a spingere la sedia a rotelle, in silenzio.
Nel corridoio incrociammo gli sguardi dei familiari in visita ai degenti mezzo moribondi del reparto. Paolo salutò tutti a uno a uno. Mi tenni a distanza per rispetto, poi mi fece segno, mi avvicinai e lo condussi fino all’ascensore. In attesa che si aprisse la porta, infilò una mano in tasca, tirò fuori un pacchetto di mentine, ne prese due, poi me le allungò, ma io rifiutai.
«Grazie» disse con un filo di voce.
«Di che?»
«Di essere qua».
Gli appoggiai una mano sulla spalla che non staccai fino a che arrivammo al piano terra dove ci immergemmo dentro un mucchio di gente indaffarata che, all’improvviso, mi apparve per quello che era: un bel niente! Tanti bel niente uno accanto all’altro, a fare e disfare. Lasciammo la sedia a rotelle alla reception.
«Mangiamo qualcosa prima di andare?»
Era una di quelle domande che non ammettono una risposta negativa.
«Sei sicuro?»
«Una volta a casa sarà dura. Meglio adesso».
Otello Marcacci