Riprendo la lettura delle poesie della raccolta postuma e del diario di Cesare Pavese – Il mestiere di vivere – per ripercorrere l’ultimo anno della sua vita, il 1950: quegli otto mesi pervasi da speranza e poi da disperazione, prima di farla finita, in un albergo di Torino. Gli altri post, se volete, li rintracciate facilmente selezionando la categoria Pavese.
“Certo in lei non c’è soltanto lei, ma tutta la mia vita passata, la inconsapevole preparazione – l’America, il ritegno ascetico, l’insofferenza delle piccole cose, il mio mestiere. Lei è la poesia, nel più letterale dei sensi. Possibile che non l’abbia sentito?”
Lei è Constance Dowling, Connie, l’ultimo amore di Cesare Pavese, conosciuta al Capodanno del 1950 a Roma, a casa di amici, insieme alla sorella Doris. Constance era un’attrice americana, che negli anni tra il 1946 e il 1950 visse e recitò in Italia. Si videro quella sera ma non accadde nulla; passò del tempo, e il 14 gennaio P. scrisse sul suo diario, “Il mestiere di vivere”: “Ripensando alle sorelle D. so che ho perduto una grande occasione di fare sciocchezze.” Si rividero a Torino e lei lo convinse a trascorrere dei giorni insieme a Cervinia. Non sappiamo esattamente cosa quei giorni di intimità rappresentarono per lei, ma conosciamo bene come li visse lui. Nel suo diario annota:
“6 marzo. Stamattina alle 5 o 6. Poi la stella diana, larga e scintillante sulle montagne di neve. L’orgasmo, il batticuore, l’insonnia. C. è stata dolce e remissiva, ma insomma staccata e ferma. Il cuore mi ha saltato tutto il giorno, e non smette ancora. (..) Quella che si chiama passione non sarà poi semplicemente questo dibattersi del cuore, questa tara nervosa? Sono molto deteriorato dal ’34 e dal ’38. Allora ero smaniosissimo ma non malato. (..) 9 marzo. Battito, tremore, infinito sospirare. Possibile alla mia età? Non mi succedeva diverso a venticinque anni. Eppure ho un senso di fiducia, di (incredibile) tranquilla speranza. È così buona, così calma, così paziente. Così fatta per me. Dopotutto, lei mi ha cercato. (..) 16 marzo. Il passo è stato terribile eppure è fatto. Incredibile dolcezza di lei, parole di speranza. Darling, sorriso, lungo ripetuto piacere di star con me. Le notti di Cervinia, le notti di Torino. È una ragazza, una normale ragazza. Eppure è lei – terribile. Dal profondo del cuore: non meritavo tanto.”
Se apriamo il volume delle sue poesie, quelle pubblicate postume sotto il titolo “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, troviamo, datata 11 marzo ’50, questa:
To C. from C.
You,
dappled smile
on frozen snows-
wind of March,
ballet of boughs
sprung on the snow,
moaning and glowing
your little “ohs”-
white-limbed doe,
gracious,
would I could know
yet
the gliding grace
of all your days,
the foam-like lace
of all your ways-
to-morrow is frozen
down on the plain-
you, dappled smile,
you, glowing laughter.
(traduzione)
Tu, screziato sorriso su nevi gelate – vento di Marzo, balletto di rami spuntati sulla neve, gemendo e ardendo, i tuoi piccoli “oh!” – daina dalle membra bianche, graziosa, potessi io sapere ancora la grazia volteggiante di tutti i tuoi giorni, la trina di spuma di tutte le tue vie – domani è gelato giù nella pianura – tu, screziato sorriso, tu, risata ardente.
Finiscono i giorni dello stare insieme, dell’illusione. Lei parte per Roma e già il giorno successivo, il 17 marzo, P. le scrive una lettera:
“Cara Connie, volevo fare l’uomo forte e non scriverti subito, ma a che servirebbe? Sarebbe soltanto una posa. (..) Ti amo. Cara Connie, di questa parola so tutto il peso – l’orrore e la meraviglia – eppure te la dico, quasi con tranquillità. L’ho usata così poco nella mia vita, e così male, che è quasi nuova per me.”
Il 20 marzo, aveva composto un’altra poesia, dal titolo in inglese, ma il testo in italiano:
In the morning you always come back
Lo spiraglio dell’alba
respira con la tua bocca
in fondo alle vie vuote.
Luce grigia i tuoi occhi,
dolci gocce dell’alba
sulle colline scure.
Il tuo passo e il tuo fiato
come il vento dell’alba
sommergono le case.
La città abbrividisce,
odorano le pietre –
sei la vita, il risveglio.
Stella sperduta
nella luce dell’alba,
cigolío della brezza,
tepore, respiro –
è finita la notte.
Sei la luce e il mattino.
In questa poesia P. sembra rinascere, per lui “è finita la notte”, la vita sembra illuminarsi di nuovo e, forse, come mai prima. Connie è “la luce e il mattino”, per lui. Il suo trasporto traspare prepotente nella lirica che porta la data 21 marzo ’50:
Hai un sangue, un respiro.
Sei fatta di carne
di capelli di sguardi
anche tu. Terra e piante,
cielo di marzo, luce,
vibrano e ti somigliano –
il tuo riso e il tuo passo
come acque che sussultano –
la tua ruga fra gli occhi
come nubi raccolte –
il tuo tenero corpo
una zolla nel sole.
Hai un sangue, un respiro.
Vivi su questa terra.
Ne conosci i sapori
le stagioni i risvegli,
hai giocato nel sole,
hai parlato con noi.
Acqua chiara, virgulto
primaverile, terra,
germogliante silenzio,
tu hai giocato bambina
sotto un cielo diverso,
ne hai negli occhi il silenzio,
una nube, che sgorga
come polla dal fondo.
Ora ridi e sussulti
sopra questo silenzio.
Dolce frutto che vivi
sotto il cielo chiaro,
che respiri e vivi
questa nostra stagione,
nel tuo chiuso silenzio
è la tua forza. Come
erba viva nell’aria
rabbrividisci e ridi,
ma tu, tu sei terra.
Sei radice feroce.
Sei la terra che aspetta.
Ma anche questo sentimento non sarà corrisposto; Constance ha altri amori (difficili) nella sua vita e non c’è spazio per Cesare. Lei non risponde alle sue lettere, non da sue notizie, gettandolo nello sconforto. P. annota nel diario:
“22 marzo. Nulla. Non scrive nulla. Potrebbe esser morta. Devo avvezzarmi a vivere come se questo fosse normale. Quante cose non le ho detto. In fondo il terrore di perderla ora, non è l’ansia del possesso ma la paura di non poterle più dire queste cose. Quali siano queste cose ora non so. Ma verrebbero come un torrente quando fossi con lei. È uno stato di creazione. Oh dio, fammela ritrovare.”
La vita e l’amore lo hanno già disilluso in passato, e questa storia sembra avere lo stesso destino delle precedenti. P. il 22 marzo scrive la poesia che consegnerà alla storia della letteratura la sua disperazione per non essere corrisposto:
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Pavese ci consegna, in questi versi, la sua impietosa riflessione sulla fine dell’amore che cancella ogni speranza per il futuro. Il primo verso – in seguito ripetuto a ribadire il concetto – afferma l’unione indissolubile tra gli occhi della donna e la morte; morte che appare come unica compagna, che si staglia a fianco del poeta “dal mattino alla sera”. Altre immagini compongono il quadro: incomunicabilità e silenzio, a preannunciare un silenzioso congedo dalla vita; concetti espressi in questi novenari attraverso l’utilizzo dell’ enjambement, che scandisce e segmenta le disillusioni espresse dal poeta.
Torniamo al diario, a leggere cosa scrive in quei giorni:
“23 marzo. L’amore è veramente la grande affermazione. Si vuole essere, si vuole contare, si vuole – se morire si deve – morire con valore, con clamore, restare insomma. Eppure sempre gli è allacciata la volontà di morire, di sparirci: forse perché esso è tanto prepotentemente vita che, sparendo in lui, la vita sarebbe affermata anche di più?
25 marzo. Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla.”
Continuerò la lettura delle altre poesie nel prossimo post.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi è una poesia che ho sempre sentito potente! E l’ultima frase del diario di Pavese: che bella e significativa!
Il rischio che si corre è sempre quello di dare colpe a chi non corrisponde all’amore di un suicida. Anche nei versi della canzone di De Gregori è un po’ così. Ma quest’ultima frase di Pavese quanto è illuminante e profonda e, perché no?, anche generosa
"Mi piace"Piace a 2 people
Grazie per queste tue parole. Come dici giustamente tu, in quella frase è chiara tutta la delusione verso se stessi, le proprie incapacità e debolezze. Vedremo nel prossimo post le sue ultime riflessioni, che vanno proprio in quella direzione. Connie è stata l’ultima, in ordine temporale, ma non è da “incolpare”. Il disagio di Pavese era profondo; il successo, la notorietà (non avulsa comunque da critiche e invidie) non gli bastavano; la sua ricerca di un rapporto umano e sentimentale era volta a coprire uno spazio che il lavoro non poteva saturare.
"Mi piace"Piace a 2 people
Un vuoto interiore che niente può riempire, neppure un amore. Ciao, attendo il seguito
"Mi piace"Piace a 1 persona
E’ un autore che amo particolarmente per la sua inestimabile profondità d’animo!
Mi sono molto emozionata quando ho letto “Lei è la poesia…
lo spiraglio dell’alba respira con la tua bocca”
Mentre leggevo questi capolavori di pura, universale bellezza, mi è venuta subito in mente la bellissima e struggente poesia di Neruda “Quando morrò voglio le tue mani”
Dentro alle parole dei grandi poeti troviamo il vero abbraccio universale
Un caro saluto
Adriana
"Mi piace"Piace a 1 persona
Grazie Adriana per questa bellissima citazione!
"Mi piace""Mi piace"