pavese pianoNel post precedente abbiamo letto la poesia che porta questo titolo, poi esteso al gruppo di poesie che furono pubblicate dopo la sua morte e che datano al 1950.

Pavese associa agli occhi della donna amata, da cui non è ricambiato, la morte; una morte duplice, quella dell’io poetico ma anche quella reale, drammatica del poeta stesso, a cui, solo dopo pochi mesi, si lascerà andare.

Gli occhi della donna amata avevano tanto caratterizzato i versi degli stilnovisti, da Cavalcanti (“Voi che per li occhi mi passaste ‘l core”), a Guinizzelli: ma in queste liriche gli occhi, lo sguardo dell’amata, attraverso le sofferenze inferte dall’amore, destavano il poeta al risveglio, alla vita. In P., invece, essi assistono alla morte muta dell’uomo: “I tuoi occhi/saranno una vana parola,/un grido taciuto, un silenzio.” E gli occhi della donna avranno sguardi solo per se stessa, in un riflesso allo specchio, non incontreranno più quelli dell’amante. Ma il poeta avverte che la morte ha uno sguardo per tutti e nel silenzio, tutti trascinerà a sé. La conclusione si allarga quindi al plurale, non riguarda più soltanto il poeta: si esce dalla dimensione personale per entrare in una dimensione universale, per oggettivare una constatazione che non riguarda più il singolo.

Constance Dowling 3La stessa associazione donna-morte compare nella poesia “You, wind of March”, (titolo in inglese e testo in italiano):

Sei la vita e la morte.

Sei venuta di marzo

sulla terra nuda –

il tuo brivido dura.

Sangue di primavera

-anemone o nube –

il tuo passo leggero

ha violato la terra.

Ricomincia il dolore.

 

Il tuo passo leggero

ha riaperto il dolore.

Era fredda la terra

sotto povero cielo,

era immobile e chiusa

in un torpido sogno,

come chi più non soffre.

Anche il gelo era dolce

dentro il cuore profondo.

Tra la vita e la morte

la speranza taceva.

 

Ora ha una voce e un sangue

ogni cosa che vive.

Ora la terra e il cielo

sono un brivido forte,

la speranza li torce,

li sconvolge il mattino,

li sommerge il tuo passo,

il tuo fiato d’aurora.

Sangue di primavera,

tutta la terra trema

di un antico tremore.

 

Hai riaperto il dolore.

Sei la vita e la morte.

Sopra la terra nuda

sei passata leggera

come rondine o nube,

e il torrente del cuore

si è ridestato e irrompe

e si specchia nel cielo

 e rispecchia le cose –

e le cose, nel cielo e nel cuore

soffrono e si contorcono

nell’attesa di te.

È il mattino, è l’aurora,

sangue di primavera

tu hai violato la terra.

 

La speranza si torce,

e ti attende ti chiama.

Sei la vita e la morte.

Il tuo passo è leggero.

25 marzo ‘50

pavese mestiere25 marzo: lo stesso giorno in cui Pavese annota sul diario l’ultima frase riportata nel post precedente e che racchiude la sua amarezza e il suo disagio profondo. In quei giorni Cesare continua a sperare di ricevere sue notizie: e ciò avviene, si parlano “da lontano”, ma lei “non mi vuole subito”.  P. fa un ulteriore tentativo, le scrive una lettera in inglese (che conosciamo nella traduzione di Italo Calvino), datata 17 aprile:

“Carissima. Non sono più in animo di scrivere poesie. Le poesie sono venute a te e se ne vanno con te. Questa l’ho scritta qualche pomeriggio fa, durante le lunghe ore all’Hotel in cui aspettavo, esitando, di chiamarti. Perdonane la tristezza, ma ero anche triste. Vedi, ho cominciato con una poesia in inglese e finisco con un’altra. C’è in esse tutta l’ampiezza di quel che ho sperimentato in questo mese: l’orrore e la meraviglia.(..) Farai in tempo a ricevere “La luna e i falò”. Forse sarà già ad aspettarti in North Vista Avenue prima che tu arrivi. Sono così contento che ci sia il tuo nome. Ricorda che ho scritto questo libro – interamente – prima di conoscerti, eppure in qualche modo sentivo in questo libro che stavi per venire. Non è stato meraviglioso?Viso di primavera, io di te amavo tutto, non solo la tua bellezza, il che è abbastanza facile, ma anche la tua bruttezza, i tuoi momenti brutti, la tua tache noire, il tuo viso chiuso. E pure ti compiango. Non dimenticarlo.”

Tra la fine di marzo e l’inizio aprile, P. aveva composto le ultime liriche che conosciamo. In “Passerò per Piazza di Spagna” ci troviamo di fronte un contesto brulicante di presenze: il tumulto nelle strade, i pini, i fiori, le rondini, persino le pietre canteranno e il cuore batterà forte, “sussultando/ come l’acqua nelle fontane”. Il poeta dice che:

“Il tumulto delle strade

sarà il tumulto del cuore

nella luce smarrita.

Sarai tu – ferma e chiara.”

Ma si tratta solo di momenti, rari, di speranza, laddove il sentimento generale attiene più alla mancanza, alla nostalgia. Sentimenti rivolti a questa donna che il poeta identifica con la fuga, la lontananza; una donna che lui vorrebbe mettere al centro dei suoi giorni, che preferirebbe associare all’alba, al mattino, alla vita.: “Tu eri la vita”, “Dove sei tu, luce, è il mattino”. Allora il pensiero va a quei pochi giorni di felicità, quando “non pena non febbre non ombra” insidiavano la gioia. Giorni che ormai appartengono ad un passato senza ritorno, un cammino verso il buio: “È buio il mattino che passa/ senza la luce dei tuoi occhi.”

I mattini passano chiari

e deserti. Così i tuoi occhi

s’aprivano un tempo. il mattino

trascorreva lento, era un gorgo

d’immobile luce. Taceva.

Tu viva tacevi; le cose

vivevano sotto i tuoi occhi

(non pena non febbre non ombra)

come un mare al mattino, chiaro.

 

Dove sei tu, luce, è il mattino.

Tu eri la vita e le cose.

In te desti respiravamo

sotto il cielo che ancora è in noi.

Non pena non febbre allora,

non quest’ombra greve del giorno

affollato e diverso. O luce,

chiarezza lontana, respiro

affannoso, rivolgi gli occhi

immobili e chiari su noi.

È buio il mattino che passa

senza la luce dei tuoi occhi.

30 marzo ‘50

lajolo vizio assurdo

Scrive Davide Lajolo in Il “vizio assurdo” Storia di Cesare Pavese:

Un momento breve. E’ quella felicità che lo distoglie per qualche tempo dal suo tormento più grande. Torna a sentirsi innamorato. Non è riuscito allora, quand’era giovane, a sposare la donna dalla voce rauca, né le altre, ma ora s’afferra all’ultima speranza, a quest’ultima umana àncora di salvezza. Constance è intelligente, estrosa, colta. Lo sa capire anche nelle allucinazioni; ma Constance è ambigua, imprendibile. E anche Costance lo abbandona; e anche Constance corre da un altro uomo. Così è accaduto sempre a Pavese con le donne che amava”

Pavese si dibatte tra il dovere accettare l’ineluttabile oggettività dell’abbandono e la speranza del ritorno. I suoi sentimenti sono come un’altalena che oscilla tra la dolcezza del ricordo e l’amarezza della realtà.

The night you slept

Anche la notte ti somiglia,

la notte remota che piange

muta, dentro il cuore profondo,

e le stelle passano stanche.

Una guancia tocca una guancia –

è un brivido freddo, qualcuno

si dibatte e t’implora, solo,

sperduto in te, nella tua febbre.

 

La notte soffre e anela l’alba,

povero cuore che sussulti.

O viso chiuso, buia angoscia,

febbre che rattristi le stelle,

c’è chi come te attende l’alba

scrutando il tuo viso in silenzio.

Sei distesa sotto la notte

come un chiuso orizzonte morto.

Povero cuore che sussulti,

un giorno lontano eri l’alba.

4 aprile ‘50

Dentro questo amore non c’è soltanto un sentimento per una donna: c’è la vita di Cesare, il suo lavoro di scrittore e di traduttore, la letteratura, la poesia. In questo amore si sommano tutti gli amori e tutte le delusioni, le speranze e le sofferenze passate. Lo scrive nel suo diario:

Certo in lei non c’è soltanto lei, ma tutta la mia vita passata, la inconsapevole preparazione – l’America, il ritegno ascetico, l’insofferenza delle piccole cose, il mio mestiere. Lei è la poesia, nel più letterale dei sensi.”

Cesare non riesce a togliersela dalla testa, non può abbandonare la speranza che Connie torni da lui, nonostante gli amici cerchino di convincerlo a lasciarla perdere. Ecco le sue parole datate 20 aprile:

“Forse sta volando sull’Atlantico. Per due mesi. Come aspettare tanto? E aspettare che cosa? Tutti – Lalla, Nat, Doris ecc – tutti dicono che non va, che siamo diversi, che non c’è niente da guadagnare. «Che vuoi?» Voglio te, per la vita. Possibile che basti?”

Il 10 aprile scrive questi versi:

The cats will know

Ancora cadrà la pioggia

sui tuoi dolci selciati,

una pioggia leggera

come un alito o un passo.

Ancora la brezza e l’alba

fioriranno leggere

come sotto il tuo passo,

quando tu rientrerai.

Tra fiori e davanzali

i gatti lo sapranno.

 

Ci saranno altri giorni,

ci saranno altre voci.

Sorriderai da sola.

I gatti lo sapranno.

Udrai parole antiche,

parole stanche e vane

come i costumi smessi

delle feste di ieri.

 

Farai gesti anche tu.

Risponderai parole –

viso di primavera;

farai gesti anche tu.

 

I gatti lo sapranno,

viso di primavera;

e la pioggia leggera,

l’alba color giacinto,

che dilaniano il cuore

di chi più non ti spera,

sono il triste sorriso

che sorridi da sola.

Ci saranno altri giorni,

altre voci e risvegli.

Soffriremo nell’alba,

viso di primavera.

Inizia il mese di maggio, e Cesare cede alla disillusione e alla disperazione.

“10 maggio. Mi si chiarisce l’idea, a poco a poco, che, se anche torna, sarà come non ci fosse. «I’ll never forget you» questo si dice a chi si ha intenzione di mollare. Del resto, come mi sono comportato io con quelle che mi pesavano, mi seccavano – che non volevo? Nell’identico modo. Il gesto – il gesto – non dev’essere una vendetta. Dev’essere una calma e stanca rinuncia, una chiusa di conti, un fatto privato e ritmico. L’ultima battuta.”

“27 maggio. La beatitudine del ’48-’49 è tutta scontata. Dietro quella soddisfazione olimpica c’era questo – l’impotenza e il rifiuto a impegnarmi. Adesso, a modo mio, sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola: suicidio.”

Cesare si domanda come dovrebbe comportarsi con lei: “essere un assoluto amico” o un “risoluto indemoniato che si scatena”? In realtà, sa bene che tutto è inutile, non cambierà il corso della loro storia perché tutto è già deciso “dal destino”; al culmine della disperazione, scrive quasi un grido disperato: “che lo sappia. A questo si può rinunciare?”

Il mese di agosto, i suoi ultimi giorni di vita, sono un susseguirsi di riflessioni lapidarie, su se stesso, sul suo lavoro, sugli amori. Frasi di poche parole, che contengono tutta la disperazione di un uomo che mentre contempla il suicidio, si sente vivo come mai prima.

“Perché morire? Non sono mai stato vivo come ora, mai così adolescente. (..) La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti.”

Fino ad arrivare ad un

“consuntivo di un anno non ancor finito. (..) Nel mio mestiere dunque sono re. In dieci anni ho fatto tutto. Se penso alle esitazioni di allora. nella mia vita sono più disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? Niente. Ho ignorato per qualche anno le mie tare, ho vissuto come se non esistessero. Sono stato stoico. Era eroismo? No, non ho fatto fatica. E poi, al primo assalto dell’ «inquieta angosciosa», sono ricaduto nella sabbia mobile. Da marzo mi ci dibatto. Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna, nomi casuali.(..) Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono.”

Le sue ultime, tragiche parole: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.”

pavese mestiere di vivere segreCome dice Cesare Segre nell’introduzione a “Il mestiere di vivere”: “Pavese muore, ma da scrittore. Da scrittore che non scriverà più.”

Last blues, to be read some day

‘T was only a flirt

you sure did know –

some one was hurt

long time ago.

 

All is the same

time has gone by –

some day you came

some day you’ll die.

 

Some one has died

long time ago –

some one who tried

but didn’t know.

11 aprile ‘50

(traduzione di Italo Calvino: Era solo un flirt / tu certo lo sapevi / qualcuno fu ferito / tanto tempo fa. / È tutto lo stesso / il tempo è passato / un giorno venisti / un giorno morirai. / Qualcuno è morto / tanto tempo fa / qualcuno che tentò / ma non seppe.)

Questa è l’ultima poesia scritta da Pavese, il suo ultimo sunto: i suoi amori altro non sono stati che banali flirt; anche se il tempo è passato e i nomi sono cambiati, tutto è esattamente lo stesso. Le sue ferite hanno radici lontane, quando già allora qualcosa dentro di lui morì. Nel dicembre del ’37 Pavese scriveva nel diario:

“Ci voleva l’impotenza, la convinzione che nessuna donna gode con me, che non godrà mai (siamo quello che siamo) ed ecco questa angoscia. Se non altro posso soffrire senza vergognarmi: le mie pene non sono più d’amore. Ma questo è veramente il dolore che accoppa ogni energia: se non si è uomo (..), se si deve passare tra donne senza poter pretendere, come si può farsi forza e reggere? C’è un suicidio meglio giustificato? (..) Naturalmente tutti ti dicono «che importa? Non c’è solo questo. La vita è varia. L’uomo vale per altro» ma nessuno – nemmeno gli uomini – ti danno un’occhiata se non hai quella potenza che irradia. E le donne ti dicono «che importa? ecc» ma sposano un altro. E sposarsi vuol dire costruirsi una vita. E tu non te la costruirai mai. (..) E in quest’anno è venuta al pettine la mia lunga e segreta vergogna.”

“L’amore ha la virtù di denudare non i due amanti l’uno di fronte all’altro, ma ciascuno dei due davanti a sé.”

pavese disegno