Su queste pagine abbiamo letto insieme una parte della produzione poetica di Cesare Pavese. Una minima parte. Solo alcune poesie, e alcune sue annotazioni riprese da “Il mestiere di vivere” – opera fondamentale per entrare in empatia con l’uomo Pavese. Cesare Pavese ha scritto tanto, e su di lui si è scritto tantissimo; se date un’occhiata alla bibliografia ufficiale stilata sul sito della Fondazione Cesare Pavese ve ne rendete immediatamente conto.

Ma più che parlare di lui, vorrei, in tutta semplicità, rimarcare l’importanza – oltre che il piacere – di leggerlo. Di rileggerlo, se già si è letto. Perché, ancora oggi, nel 2020, Pavese ha molto da dire. E da insegnare a chi vuole cimentarsi con la scrittura – meglio e più di tanti “maestri” che on line pretendono di insegnare agli aspiranti scrittori come si costruisce un romanzo o un racconto.

Per arricchire questo invito, vi propongo qualche incipit e stralcio dalla sua opera narrativa. Buona lettura!

Parto da “La bella estate” (1949), con un incipit magistrale; un romanzo breve che magari non tutti conoscono. Anche a livello critico, se da un lato si riconosce il valore  dell’opera narrativa di P. delle sue opere classiche, minore attenzione è stata data ai romanzi brevi (vedi la stroncatura di Italo Calvino). Il tema centrale di questa opera è la perdita dell’innocenza, la cui metafora è espressa dalla fine dell’estate, dalla fine della “bella estate”, così come dell’incanto giovanile, delle sue illusioni e dei suoi slanci. Di fianco a questo tema, Pavese sviluppa quello dell’amicizia tra le due ragazze, Ginia e Amelia. Un rapporto che rimane sospeso, lasciando intendere che tra loro scorra una sotterranea attrazione.

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravamo ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare camminare fino ai prati e fin dietro le colline. – Siete sane, siete giovani – dicevano, – siete ragazze, non avete pensieri, si capisce -. Eppure una di loro, quella Tina ch’era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria. Ginia, se queste crisi la prendevano, non si faceva accorgere ma accompagnava a casa qualche altra e parlava parlava, finché non sapevano più cosa dire. Veniva così il momento di lasciarsi, che già da un pezzo erano come sole, e Ginia tornava a casa tranquilla, senza rimpiangere la compagnia.

(..)

Quell’anno faceva tanto caldo che bisognava uscire ogni sera, e a Ginia pareva di non avere mai capito prima che cosa fosse l’estate, tanto era bello uscire ogni notte per passeggiare sotto i viali. Qualche volta pensava che quell’estate non sarebbe finita più, e insieme che bisognava far presto a godersela perché, cambiando la stagione, qualcosa doveva succedere. (pag 17)

Insieme a “La bella estate” (scritto nel 1940, ma pubblicato nel 1949), possiamo leggere “Il diavolo sulle colline” e “Tra donne sole“, apparsi in unico volume nel 1949. Il volume vinse il Premio Strega nel 1950. Pavese annota sul suo diario “Il mestiere di vivere” il 26 novembre 1949, uno schema in cui suddivide così le sue opere:

Pavese diario 1949

Se “La bella estate” viene indicata come afferente al naturalismo, P. identifica invece gli altri due racconti come espressioni di una realtà simbolica.

“Il diavolo sulle colline” racconta le fughe dalla città alla collina, durante un’afosa estate, di tre amici studenti universitari. Qui incontrano Poli, un giovane uomo – che fa uso di cocaina – dell’alta borghesia torinese che vive una convalescenza in villeggiatura sulla collina del Greppo. Iniziano così a frequentarsi e a vagabondare in lunghi giri in macchina. A loro, si aggiungono le presenze femminili di Rosalba – ex amante di Poli – e Gabriella – la moglie. La collina è luogo simbolico della vita, dell’incontro tra la natura e la carnalità delle pulsioni; la naturalezza minacciata dalla corruzione del vizio. Anche in questo racconto torna il tema dell’iniziazione, dell’affacciarsi alla vita tramite esperienze che passano attraverso i topoi e gli archetipi cari a P.:  la terra pulsante, le donne, l’amore, il sangue, la morte.

Ecco cosa annota P. nel suo diario il 7 ottobre 1948:

Il 4 ottobre finito il Diavolo in collina. Ha l’aria di qualcosa di grosso. È un nuovo linguaggio. Al dialettale e al calligrafico colto, aggiunge la «discussione studentesca». Per la prima volta hai veramente piantato simboli. Hai recuperato la Spiaggia innestandovi i giovani che scoprono, la vita di discussione, la realtà mitica.

 

Pavese tra donne sole

In Tra donne sole la protagonista è Clelia, una giovane donna della Torino del dopoguerra. Nata da umili origini, nel mondo contadino e operaio, dopo anni di lavoro e sacrifici, si è fatta modista e torna nella sua città per aprire un proprio atelier, dove pensa di potere entrare in contatto con il mondo sociale alto-borghese. Conosce varie donne che le svelano quanto sia profonda la vacuità morale di quell’ambiente.  Da un lato Clelia è orgogliosa del suo successo, che la rende libera delle sue scelte; dall’altro, è delusa di vedere cadere le sue aspettative verso quel mondo. Lei comunque reagisce, mentre la sua amica Rosetta, sopraffatta dalla solitudine, si suicida.

In questo racconto vediamo un po’ specchiata la parabola di P.: da un lato il successo guadagnato col duro lavoro letterario, dall’altro la solitudine e l’impossibilità di stabilire un legame affettivo sincero e duraturo.

Dal libro è stato tratto un film, Le amiche, del 1955, diretto da Michelangelo Antonioni, Leone d’Argento alla 20° Mostra del Cinema di Venezia.

Antonioni le_amiche

 

Pavese la spiaggia

C’è un altro suo romanzo breve che mi piace citare, a dispetto di quanto lo stesso Pavese affermava nel saggio “L’influsso degli eventi” (contenuto nel volume che vedete nella foto), La spiaggia” (1942):

La spiaggia invece, il mio romanzetto non brutale, non proletario e non americano – che pochi per fortuna hanno letto – non è scheggia del monolito. Rappresenta una mia distrazione, anche umana, e insomma, se valesse la pena, me ne vergognerei. È quello che si chiama una franca ricerca di stile.

 

Questo è l’incipit; lascio a voi la decisione di leggerlo….

Da parecchio tempo eravamo intesi con l’amico Doro che sarei stato ospite suo. A Doro volevo un gran bene, e quando lui per sposarsi andò a stare a Genova ci feci una mezza malattia. Quando gli scrissi per rifiutare di assistere alle nozze, ricevetti una risposta asciutta e baldanzosa dove mi spiegava che, se i soldi non devono neanche servire a stabilirsi nella città che piace alla moglie, allora non si capisce più a cosa devano servire. Poi, un bel giorno, di passaggio a Genova, mi presentai in casa sua e facemmo la pace. Mi riuscì molto simpatica la moglie, una monella che mi disse graziosamente di chiamarla Clelia e ci lasciò soli quel tanto ch’era giusto, e quando alla sera ci ricomparve innanzi per uscire con noi, era diventata un’incantevole signora cui, se non fossi stato io, avrei baciato la mano.

Diverse volte in quell’anno capitai a Genova e sempre andavo a trovarli. Di rado erano soli, e Doro con la sua disinvoltura pareva benissimo trapiantato nell’ambiente della moglie. O dovrei dire piuttosto ch’era l’ambiente della moglie che aveva riconosciuto in lui il suo uomo e Doro li lasciava fare, noncurante e innamorato. Di tanto in tanto prendevano il treno, lui e Clelia, e facevano un viaggio, una specie di viaggio di nozze intermittente, che durò quasi un anno. Ma avevano il buon gusto di accennarne appena. Io, che conoscevo Doro, ero lieto di questo silenzio, ma anche invidioso: Doro è di quelli che la felicità rende taciturni, e a ritrovarlo sempre pacato e intento a Clelia, capivo quanto doveva godersi la nuova vita. Fu anzi Clelia che, quand’ebbe con me un po’ di confidenza, mi disse, un giorno che Doro ci lasciò soli: – Oh sì, è contento, – e mi fissò con un sorriso furtivo e incontenibile.

 

Pavese strega

 

Infine, non può mancare “La casa in collina“, il momento più alto della maturità artistica di P. la storia di una solitudine individuale di fronte all’impegno civile e storico; la contraddizione da risolvere tra vita in campagna e vita in città, nel caos della guerra; il superamento dell’egoismo attraverso la scoperta che ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione. Il romanzo simbolo dell’impegno politico e del disagio esistenziale di un’intera generazione.

Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che facciamo? perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.