In fin dei conti, che cosa è rimasto di quel tempo lontano? Per tutti, oggi, quelli sono gli anni dei processi politici, delle persecuzioni, dei libri all’indice e degli assassinii giudiziari. Ma noi che ricordiamo dobbiamo portare la nostra testimonianza: non fu solo il tempo del terrore, fu anche il tempo del lirismo! Il poeta regnava a fianco del carnefice. Il muro dietro il quale erano imprigionati uomini e donne era interamente tappezzato di versi, e davanti a quel muro di danzava. Ah no, non era una danza macabra. Lì danzava l’innocenza! L’innocenza col suo sorriso insanguinato. (pag. 311)
La vita è altrove, di Milan Kundera, prima edizione 1969, Adelphi edizioni 1987, (2003), traduzione di Serena Vitale, pagg. 349
Un libro impegnativo. Bisogna stringere un patto con l’autore: leggere bene la prefazione, accettare i presupposti, e lo stile; fatto ciò, si riceve in cambio un romanzo di grande intensità e intelligenza, che ruota attorno alla figura del poeta e dell’età lirica, e che scaturisce una lunga serie di domande. Ma, attenzione, avverte l’autore: “A tutte queste domande il romanzo naturalmente non dà risposta. La risposta è già nelle domande stesse, perché, come dice Heidegger, l’essenza dell’uomo ha la forma di una domanda.”
Un “romanzo-saggio”, che alterna la narrazione romanzesca a parentesi saggistiche. Come laddove narra in maniera didascalica la vita di altri poeti famosi, come Shelley, Rimbaud e Lermontov, sottolineandone le analogie con la vita del protagonista. Poeti giovani, sostenitori di una rivoluzione, pronti ad immolarsi per una causa, e con una figura materna importante e predominante nelle loro vite. Un procedere narrativo che spiega, con dovizia di particolari – non si fida del lettore? – e un atteggiamento quasi paternalistico, tutti i risvolti di decisioni, pensieri, convinzioni maturati nei protagonisti.
Il romanzo è ambientato nella Cecoslovacchia – a Praga – che passa attraverso l’invasione nazista, la guerra e le chimere di una rivoluzione socialista che si tramuta presto in un regime poliziesco liberticida. Racconta la storia della breve vita del giovane Jaromil, ironicamente soprannominato dall’autore il poeta. Jaromil è figlio unico e viene cresciuto come un bambino viziato da una madre eccessivamente protettiva e frustrata dal rapporto col marito – costretto a sposarla e che avrebbe preferito sbarazzarsi della gravidanza.
Il rapporto con la madre è il fulcro attorno a cui si costruisce il carattere, e il futuro, del ragazzo. Lei gli costruisce e cuce addosso il suo ideale di figlio, nel quale, suo malgrado, Jaromil scivola pian piano. Vorrebbe poter e saper vivere la sua vita, ma è costretto a convincersi di essere diverso – cioè migliore, superiore – da tutti gli altri, di avere un dono che lo eleva. In realtà, tutto questo lo costringe a vivere “altrove”: nel sogno, nel futuro, nella poesia, ovunque ma non non nella realtà.
A causa di alcune ardenti delusioni e della incapacità a costruire rapporti interpersonali, il poeta ha la tendenza ad evadere dalla realtà, a trasportarsi verso un mondo immaginario straordinariamente poetico, un altrove che diventa un luogo non definito e ricorrente, avulso dalla realtà.
Sono un poeta, sono un grande poeta, dice a se stesso, e poi lo scrive anche nel diario: ‘Sono un grande poeta, possiedo una grande sensibilità, un’immaginazione demoniaca, sento quello che gli altri non sentono…
Dopo la parentesi da aspirante pittore di uomini cinocefali, nella sua fuga dalla quotidianità comincia a scrivere poesie e racconti, creando le avventure di un personaggio temerario e vincente, Xaver. Jaromil si immedesima a tal punto nel suo personaggio da arrivare a immaginare di vivere una vita parallela poetica e romantica, che fa da contraltare a una realtà che lo lascia profondamente insoddisfatto.

Durante gli anni del secondo dopoguerra, con la presa del potere da parte dei comunisti in Cecoslovacchia, il protagonista trova una dimensione a lui congeniale. All’ultimo anno del liceo si iscrive al circolo marxista, dove riesce ad ottenere ammirazione e seguito grazie alla sua capacità di sciorinare teorie estetiche. Finalmente ottiene il successo che ha sempre cercato diventando – involontariamente – un poeta di regime, scrivendo versi in sintonia con l’imperante realismo socialista, sulla costruzione di centrali elettriche e macchinari agricoli. Aderendo all’idealismo comunista, che aveva come obiettivo quello di modellare ed educare ideologicamente la popolazione nello spirito del socialismo, e inebriato dal successo, Jaromil perde ancora di più il contatto con la realtà. Diviene un delatore del regime, tenendo sotto controllo le posizioni dei suoi insegnati all’università; impone un rapporto tirannico alla sua ragazza, insomma, agisce sulla base di ciò che ha ricevuto come educazione distorta. Quando arriva a convincersi di essersi completamente identificato con il suo eroe immaginario, Xavier, viene bruscamente riportato alla realtà dal suo vecchio maestro, che gli infligge una grottesca umiliazione; finché, poco meno che ventenne, il poeta muore.
Durante gli anni dell’adolescenza, la madre, vista la sua “predisposizione” per l’arte, lo aveva mandato a lezione da un pittore; con lui, Jaromil, archiviate le velleità figurative, costruisce un rapporto conflittuale che si acuisce quando il poeta diventa un “convinto” assertore dell’arte popolare socialista.
In uno degli incontri tra artisti, il pittore critica aspramente la rivoluzione proletaria e le sue conseguenze sull’arte: “Una rivoluzione che fa risuscitare dalla tomba l’arte accademica e fabbrica a migliaia di esemplari busti degli uomini di Stato non ha tradito soltanto l’arte moderna ma prima di tutto se stessa. Una rivoluzione del genere non vuole trasformare il mondo, ma al contrario, vuole conservare lo spirito più reazionario della storia, il fanatismo bigotto, la disciplina, il dogmatismo, la fede e le convenzioni.”
Jaromil – ormai completamente entrato nel personaggio che vuole essere – invece approva il fatto che le poesie di Baudelaire vengano messe all’indice insieme a tutta la letteratura moderna e che i quadri cubisti spariscano dalle gallerie perché “la rivoluzione è violenza e le cose vecchie devono far spazio a quelle nuove.”
Nel romanzo – come preannunciato nella prefazione – Kundera prende – provocatoriamente – una posizione rispetto al destino del poeta:
Per una sorta di satanica ironia della storia, l’ultimo breve periodo europeo nel quale il poeta recitò ancora la sua grande parte pubblica fu il periodo delle rivoluzioni comuniste dell’Europa centrale nel secondo dopoguerra. (..) Erano convinti di recitare la loro parte di sempre nel glorioso dramma europeo, ed erano ben lungi dal sospettare che all’ultimo momento il direttore del teatro avesse cambiato il programma sostituendolo con una farsa.
Lui stesso fu testimone di quella era dove “il poeta regnava a fianco del carnefice” (leggi la considerazione di Paul Éluard, cfr il Libro del riso e dell’oblio).
Dunque, “l’età lirica” – titolo originario del romanzo, poi cambiato per volere dell’editore – altro non è se non l’intreccio tra lirismo e rivoluzione, perché l’età lirica è la giovinezza, ed è nell’età lirica che la vita è sempre altrove, che deve compiersi, come la rivoluzione. Non a caso, la frase è una celebre frase di Rimbaud, citata da André Breton nel suo Manifesto del Surrealismo, ripresa nel maggio del 1968 dagli studenti della Sorbona.
lo sto leggendo…ciao Pina cara
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Ma dai! coincidenze letterarie…. un abbraccio, caro Poeta…..
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anche se ho superato da un bel po’ “l’età lirica” 😀 ti abbraccio anch’io, Pina cara
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Eh… Siamo in due 😉🤗
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❤
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Sai, Pina, che ho letto due cose di Kundera all’inizio degli anni ’90 e le ho ancora sullo stomaco? Non sono ancora riuscita a digerirle… 😉
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😁😁😁
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