«È stato molto triste?» «Triste?» Altro sorso. Piego le gambe, butto indietro la testa e guardo il soffitto. Non sento un vero bisogno di raccontare a Jan com’è andata. In ogni caso, ho ancora meno voglia di parlare dei suoi progetti. In me regna il silenzio, come dopo una lunga battaglia. Le grandi forze in conflitto hanno deposto le armi, di colpo si sono rese conto che hanno scordato da un pezzo il motivo per cui combattono. È passato così tanto tempo da quando si sono dichiarate guerra. (pag. 326)

Sedici parole, di Nava Ebrahimi, Keller editore 2020, traduzione di Angela Lorenzini, pagg. 330, la mia recensione

Chicchi Di Melograno, Pittura da Marika Soldati | Artmajeur

I miei sentimenti si perdevano in volo da qualche parte nello spazio aereo tra l’Iran e la Germania. Quando atterravo a Colonia-Bonn, era tutto sparito. (..) Ramin capì ben presto – non cosa, ma che qualcosa mi succedeva, quando atterravo in Germania. (..) Qui ero un’altra versione di me stessa. Volevo risparmiargli la delusione. Quando vedevo il suo numero sul display, spingevo via il cellulare. Come se a telefonare fosse la morte in persona. Oppure, ancora più angosciante, la vita. (pag.178)

In una stanza grande quanto una solitudine
il mio cuore
grande quanto un amore
attende i pretesti semplici della sua felicità.

Forugh Farrokhzad

INCIPIT

All’inizio fu una sola. Una parola che, agile e svelta, mi assalì, come poi tutte le altre sedici, dopo un’imboscata. Non riuscivo a difendermi, le parole tornavano sempre di nuovo a impormi il loro messaggio: qui c’è ancora un’altra lingua, la tua lingua madre, non credere che quella che parli sia davvero la tua. Finivo regolarmente nelle loro mani, ostaggio di queste parole che non avevano niente a che fare con la mia vita, con il modo in cui ogni giorno apro il lucchetto della bici, ordino da mangiare al ristorante oppure, in primavera, ripongo il vestiario invernale. Non avevano niente a che fare con la mia vita, eppure, o forse proprio per questo, ero continuamente in loro potere. Poi però, seguendo un’ispirazione, tradussi una parola, e fu come averla disarmata. Perché solo allora, perché non ci avessi mai pensato prima, non so dirlo. Forse avevo paura di trovarmi davanti alla parola tradotta, alla parola nuda. D’un colpo, aveva perso il suo potere su di me. Come in una fiaba, attraverso la traduzione avevo spezzato l’incantesimo che gravava sulla parola, e mi ero liberata dalla prigionia. Ora eravamo entrambi libere, la parola e io. Si fecero avanti le altro, anche loro volevano essere liberate dall’incantesimo e dalla solitudine in cui conducevano la loro esistenza. E quando superarono il proprio isolamento, quando si unirono, solo allora riconobbero quale impostura avessero alimentato in tutti quegli anni. Non da sole, ma tutte insieme. Nel non tradotto, l’impostura aveva potuto installarsi a suo piacimento.