E io per quale cacchio di motivo sarei qui? Non mi piacciono né il postindustriale, né il postapocalittico (..) Ma per qualche assurda ragione un paio di volte al mese sono qui. (..) Persino quando il freddo dell’inverno attacca con le sue tempeste di neve gli smeraldi delle paludi di Čornobyl e il sole fugge oltre le cime degli abeti senza saluti strappalacrime. Quando le tenebre ti sorprendono all’improvviso e si estendono all’infinito. (..) Durante le pause brevi si congela in silenzio: le gambe tremano dopo pochi tiri e solo muoverti ti può salvare. Spengo la camel nella neve e mi chiedo, come ogni volta, perché sono venuto qui, portandomi dietro oltretutto questa gente. Non lo so, non so rispondere.
Una passeggiata nella Zona, pag. 64-65
Una passeggiata nella Zona, di Markijan Kamyš, Keller 2019, traduzione dall’ucraino di Alessandro Achilli, pagg. 157
Markijan Kamyš è uno scrittore ucraino nato nel 1988. Il padre era uno dei cosiddetti “liquidatori” di Čornobyl’, coloro che furono chiamati ad intervenire nel tentativo di arginare la catastrofe. Suo padre, fisico nucleare e ingegnere dell’istituto per la Ricerca nucleare di Kiev, si ammalò a causa delle radiazioni e dopo un lungo calvario, morì quando Kamyš aveva quindici anni.
E ricordati che la radioattività non l’ha eliminata nessuno. Mio padre era un liquidatore. È salito tre volte sul tetto del quarto blocco in maggio, nel pieno dell’inferno, mentre stava ancora friggendo tutto. E non era un soldato sfigato, ma un ricercatore dell’Istituto di Fisica teorica.
Una passeggiata nella Zona, pag. 57
Lo scrittore, come tanti della sua generazione, ha dunque vissuto in presa diretta gli effetti di quella immensa catastrofe, quando tutta l’Europa (26 aprile 1986) rimase col fiato sospeso a fare i conti con una nube tossica che l’attraversò spargendo ovunque i suoi veleni.

La prima cosa che mi sono chiesta di fronte a questo libro è come possa essere stata la vita di quelle persone dopo. Dopo essere stati esposti, dopo che si è dovuto abbandonare la propria casa, gli amici, dopo che si è visto da vicino la malattia e la morte, causati dall’esposizione alle radiazioni. Dopo che la cortina di ferro si è abbassata ed è risultato chiaro quanto non ci sia stata nessuna precauzione per proteggere le persone. Dopo quell’apocalisse, come può essersi sentito un ragazzo come lui? Che tipo di rapporto può avere sviluppato verso quel luogo maledetto? Che cosa ancora può legarlo ad esso, fino a diventare quasi un’ossessione? Perché Kamyš continua a tornare là, nella Zona di esclusione?

Leggere il suo libro aiuta a capire molto della sua (ma non esclusivamente sua) attrazione per quel luogo. Kamyš non sa spiegare esattamente perché, ma il fatto è che continua a partire da Kiev per tornarci, continua a sentire un’attrazione irrazionale per quel luogo abbandonato e maledetto, dove ad ogni ritorno scopre qualcosa di diverso: all’inizio è Prypjat’, poi Čornobyl-2, poi i villaggi, i campi dei prigionieri, i sanatori, i carri armati, gli hangar, la ferrovia, le torri di raffreddamento, la ciminiera, “il simbolo fallico delle catastrofi”… un universo disabitato e dolente, contaminato, immobile, rimasto sospeso nel tempo, arrugginito, in disfacimento, attraversato da sciacalli e visitatori.
Volevo annusare e toccare ogni centimetro di quel posto di merda, ogni traccia del suo passato. E ogni volta giuravo che sarebbe stata l’ultima, proprio l’ultima.
Una passeggiata nella Zona, pag. 126
La Zona è meta di tour organizzati, richiesti da chi vuole vedere con i suoi occhi o da chi vuole solo farsi uno scatto da mostrare in rete: io lì ci sono stato. È anche frequentata da sciacalli in cerca di metalli da rivendere, da turisti clandestini alla ricerca di cimeli, accompagnati da guide abusive che tirano su qualche soldo, da curiosi in cerca di adrenalina sui tetti dei palazzi abbandonati o nelle paludi radioattive, da militari che dovrebbero fare rispettare il divieto di avvicinamento. Ma il perimetro è poroso, le sue falle lasciano entrare e uscire chi decide di avventurarsi. Kamyš non è uno sciacallo, né un turista. Forse è solo una persona che sta percorrendo la sua personale ricerca della pace. A costo di ammalarsi, di finire un domani in chemioterapia, ha bisogno di fare pace con quel posto, con ciò che ha significato per lui e per tutti, per ciò che tuttora (a maggior ragione oggi) significa, con ciò che da quella tragedia l’umanità dovrebbe imparare e che invece – come la storia dimostra – non ha ancora imparato. Perché là, nella Zona, nessuno potrà più tornare a vivere, quel pezzo di mondo sarà bandito all’uomo per un tempo indefinito.
Alla gente normale le case abbandonate mettono tristezza. A quelli come me conciliano il sonno, infondono pace. Qui l’ho trovata, la pace. Quella casa di campagna che non ho.
Una passeggiata nella Zona, pag. 46

E così la sua vita oscilla tra sprazzi di normalità a casa, dove consuma pasti normali, sta al caldo, va fare la spesa al supermercato, e fughe nella Zona, nel gelo dell’inverno, con uno zaino ridotto all’essenziale, con una smania che ti fa dimenticare il freddo, i rischi, tutto. Eppure è proprio lì che si sente più vivo, in quel paesaggio postapocalittico, da film tipo the day after, da videogame, in quel non-luogo svuotato dai suoi abitanti, lui sente di essere a casa. Perché lui è lì non per fare foto da postare su Instagram, come gli hipster che hanno ucciso due volte la città di Prypjat’, svilendone il significato, l’aura mistica. Lui è capace di cogliere persino la poesia di quelle cicatrici urbane, di quegli scheletri arrugginiti, dei resti di ciò che una volta era vivo e pulsante. Di celebrare con la memoria le vite di tutte quelle persone che la tragedia ha ucciso, e non solo quel giorno, ma per anni e anni e dopo la tragedia. Per non cancellare quello che successo, ma tenerlo vivo. Per non arrendersi alla follia.
Colossi di ferro, ciclopi, giganti… chiamatele come volete, ma quelle Antenne alte centocinquanta metri per ottanta nel profondo dei boschi della Polissja, sono l’ottava meraviglia del mondo. Le torri Petronas? Una scemenza. Immaginatevi trenta torri Eiffel una di fianco all’altra e avrete un’idea di quello che potete trovare lì. (..) Sotto le arcate di quelle incredibili costruzioni miriadi di gocce si infrangono sul freddo metallo. Ogni istante si riempie di nuove tonalità.
Una passeggiata nella Zona, pag. 44
In parte reportage, in parte memoir, in parte romanzo e in parte nuova e insolita geografia letteraria, questo libro attraverso il fluire dei ricordi, le descrizioni dei luoghi e le emozioni che suscitano, coinvolge il lettore in un universo dolente, lo attira in una storia che unisce il destino locale a quello globale dell’umanità. E lo fa coniugando realismo e poesia, tragedia e bellezza.
Articolo di Tommaso Pincio su Il Manifesto.
Me ne sto sul tetto a contemplare le case abbandonate. Il panorama del cuore di pietra della Zona, il panorama di Prypjat’. Il sole del tardo pomeriggio riscalda senza bruciarlo il mio viso abbronzato e sorridente. Le nuvole allungate nel cielo azzurro si sono spinte fino all’orizzonte. C’è un venticello fresco. Ora lo so con certezza: io qui ci tornerò.
Non lo conosco confesso, ma mi ha molto incuriosito quello che hai scritto! Credo lo metterò in lista! Graziee
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È un giovane autore. Il libro aiuta a scoprire una realtà complessa.
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Si immagino e io son sempre curiosa! 😊
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Molto interssante. Per certi versi mi ha ricordato il film ” STalker ” di Tarkòwsky, il quale sembra essere stato una profezia.
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Non ho presente il film…. Questo reportage è davvero interessante, racconta una realtà che non ti aspetti.
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Dopo “preghiera per Cernobyl” sono rimasta con una grande fame di notizie. Non conoscevo questo libro grazie per averlo condiviso e per la bella recensione!
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Grazie a te Cristina. È un libro che colpisce nel profondo. Non immaginavo nulla di quello che racconta…
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L’ho letto e mi ha colpito molto. Ignoravo che ci fosse tanta gente che si introduce nella Zona, a rischio della propria vita, solo per rivedere siti abbandonati e inselvatichiti, per provare, che ne so, l’ebbrezza del pericolo, o solo il desiderio di rivedere quei luoghi…
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Neanch’io pensavo che ci fossero tour organizzati né tantomeno persone che ci vanno di nascosto. Essendo una zona contaminata, mi veniva da pensare che fosse meglio starne alla larga. Leggendo il libro, però, ho capito che tipo di ossessione possa diventare per persone come l’autore che portano questo luogo come una cicatrice sul corpo, con cui, in un modo forse poco comprensibile a noi, provano a fare pace e a non cancellarne la memoria.
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