Quando è entrata a Bratislava, ha avuto la sensazione di sempre, che sarebbe stata l’ultima volta, l’ha ignorata e ha seguito in automatico le indicazioni per Dúbravka, il suo quartiere. Lungo la strada c’erano due nuovi night club, ragazze sulle insegne promettevano divertimento e discrezione. In uno di quegli edifici ogni martedì, quando era bambina, ripeteva le scale melodiche prima di addentrarsi nei preludi di Chopin o di Bach. Alla nota sbagliata la maestra Csaková le colpiva con un righello il palmo dal basso verso l’alto, la mano schizzava in aria come un uccellino spaventato. Alle lezioni di piano aveva imparato a sopportare il dolore senza scomporsi. In fondo alla Dúbravka vecchia, la casa era sovrastata da un condominio più alto che impediva al sole di raggiungerla, dalle pareti filtrava la sigla del telegiornale delle otto. Sua madre ha aperto la porta, l’ha guardata, poi ha guardato dietro di lei, giù per la strada, come cercando qualcuno. Katarína ha sorriso e la madre l’ha abbracciata: odorava di aglio schiacciato. Lei non ha partecipato all’abbraccio, una mano ancorata alla valigia e l’altra lungo il fianco. La madre allora si è staccata, ha detto:”Vieni, ti riscaldo la cena”, ed è sparita. Suo padre è sbucato da dietro la porta del bagno, le ha messo una mano sulla spalla, l’ha tenuta più a lungo del solito, Katarína l’ha annusato e non sapeva di niente.
Jana Karšaiová