Erano nate nel ’78, tutte tranne Mirka, in una Cecoslovacchia comunista appena matura che dopo quindici anni sarebbe morta per vedere sorgere dalle proprie ceneri due stati nuovi, una fenice moderna, gemella ma non troppo, un matrimonio il cui apice sarebbe stato il divorzio, battezzato anche quello di velluto. Come la rivoluzione dell’89, la Rivoluzione Gentile la chiamavano gli slovacchi, di Velluto, ribattevano i cechi.

Divorzio di velluto, pag. 25

Divorzio di velluto, di Jana Karšaiová, Feltrinelli 2022, pagg. 159

Ho deciso di leggere questo romanzo sulla spinta della motivazione che Gad Lerner aveva espresso per motivare la candidatura del libro allo Strega. Ve la riporto per intero:

«Suggerisco alla giuria del Premio Strega di far suo Divorzio di velluto di Jana Karšaiová perché vi troverà inscritto il fascino del nuovo romanzo europeo. O, se preferite, la nuova Europa declinata in letteratura italiana da una scrittrice esordiente slovacca che, da autodidatta, grazie a vent’anni di studio, nella nostra lingua ha trovato il mezzo più adatto a esprimere mirabilmente la sua condizione esistenziale. Un’adolescenza vissuta nel grigiore socialista della Cecoslovacchia che il 1° gennaio 1993 si spezzerà in due, dopo aver visto cadere la cortina di ferro che da noi la separava. Non solo questo è il Divorzio di velluto. È la separazione dolorosa ma necessaria dalle proprie radici, la scelta di una libertà di esistere, di amare, di parlare anche in modo diverso rispetto a quanto sembra sancito dai confini della propria nascita. Le belle protagoniste, Katarìna, Viera, Dora, nel loro passaggio alla gioventù, nelle trame sentimentali, nei conflitti generazionali, saranno per chi legge una rivelazione. Carpa e sushi, palacinky e discoteche, in un quadrilatero romanzesco che rende vicinissime Bratislava e Praga con Verona e Bologna. Mentre sullo sfondo restano, almeno per ora, Londra e Washington. Vicenda d’Europa al femminile che la lingua italiana superbamente acquisita, e a tratti rivitalizzata, da Jana Karšaiová rende intima, universale, sorprendente.»

Avendo ora letto il romanzo, non posso che sottoscrivere pienamente quanto espresso dal giornalista. Karšaiová scrive in un italiano perfetto dal punto di vista sintattico ed espressivo, ma non è tanto questo a sorprendermi, quanto lo è proprio la scelta di farlo, la scelta di esprimersi in una lingua diversa dalla propria lingua madre, perché questo deve pur voler dire qualcosa. Allora mi chiedo cosa ci vuole dire la sua scelta? Forse che non è tanto importante con quale mezzo linguistico ci si esprime ma cosa si vuole dire? Forse che l’idioma di espressione è solo una convenzione che comincia ad andarci stretta, che nel mondo liquido di oggi, in cui le persone si spostano da un’area geografica all’altra, la questione della lingua non deve più essere un fattore identitario ma espressivo? Forse questi dubbi sono più evidenti a chi come lei ha vissuto una realtà in movimento altalenante tra due lingue, simili ma diverse, vicine ma separate come distassero migliaia di chilometri?

Alcune risposte le ho trovate in questa sua intervista, in particolare in queste parole:

L’italiano mi dà la possibilità di pensare in un altro modo, mi dà uno sguardo e un distacco che altrimenti non ho. Lo slovacco mi veste stretta, in italiano mi sento più libera, ma anche più esposta. Riesco a scrivere del mio paese di nascita, ci torno attraverso i personaggi, la trama, l’ambiente. Ci vado protetta dallo scudo di una lingua, sono accompagnata, non sopraffatta. Le parole italiane dentro di me, sono ciò che io sono fuori, in prestito, perennemente in prestito. Ho imparato a convivere in questa mia condizione, ho tradito tutti, qualche volta mia madre me lo rinfaccia”.

Entriamo ora dentro la storia che si snoda tra le pagine del romanzo per cercare di capire il punto di vista che l’autrice esprime attraverso i personaggi.

Castello di Bratislava

Katarína, la protagonista principale, torna nella sua città, Bratislava, da Praga dove vive da quando si è sposata con Eugen, per trascorrere le festività natalizie con la famiglia, composta dai genitori, dal fratello Jojo con sua moglie e la figlioletta; sua sorella Dora invece se ne è andata di casa sette anni prima, vive negli Stati Uniti mantenendo i contatti (sempre più sporadici) solo con Katarína. La famiglia rimane sorpresa quando Katarína si presenta senza il marito e lei ha difficoltà a spiegare l’empasse a cui è giunto il loro matrimonio. Mentre i giorni trascorrono alla ricerca di una intimità familiare sostenuta dai gesti tradizionali – la spesa col padre, i piatti tipici delle feste, i regali – Katarína sente sempre di più il peso del suo disagio rispetto alla fine del suo matrimonio e ne ripercorre la storia, dal primo incontro con Eugen, al matrimonio, alle differenze tra lei e la famiglia del marito, al suo sentirsi inadeguata, nel privato e nei rapporti con gli amici di Eugen che hanno un atteggiamento canzonatorio nei confronti degli slovacchi, protagonisti di barzellette e frecciate tesi ad evidenziarne la supposta inferiorità culturale rispetto ai cechi.

Nei giorni che trascorre a Bratislava, Katarína ritrova anche le vecchie compagne di università e del liceo bilingue – un nuovo tipo di liceo che cercava di avvicinare i ragazzi alle lingue straniere europee, con l’obiettivo di proiettarli verso l’Europa -, soprattutto Viera, che si è trasferita in Italia grazie a una borsa di studio e torna sempre più malvolentieri in Slovacchia. Le due ragazze hanno in comune anche un disagio familiare legato ai due padri, entrambi disillusi e insoddisfatti che annegano nell’alcol le loro frustrazioni. Viera esprime uno dei punti focali rispetto alle domande che mi ponevo più sopra, e che si avvicinano molto al vissuto della stessa scrittrice:

“Io fuori da qui non parlo più lo slovacco”. Era un avvertimento, le chiariva le regole. Dopo un po’, con gli occhi chiusi come se lo dicesse a sé stessa, ha raccontato: “I miei genitori non hanno mai parlato la stessa lingua, non solo a me, anche fra di loro, una lingua comune. Ho imparato subito a distinguere lo slovacco dal ceco, stavo attenta a non mescolare le due lingue, se storpiavo una delle due, uno si divertiva, l’altro se la prendeva”. (..) “Se camminavo per strada con mio padre diventavo una ceca, se era mia madre a tenermi per mano, ero slovacca, almeno per il mondo intorno a noi. La lingua ti etichetta subito. Non voglio più sembrare una straniera”.

Divorzio di velluto, pag. 119

Superando uno strappo che si era creato fra loro, le due amiche si riavvicinano, si raccontano l’un l’altra gli strappi, le ferite – Viera con Barbara, che era stata la loro insegnante di italiano, Katarína con Eugen, che l’ha abbandonata due mesi prima con un biglietto sul tavolo della cucina – e il disagio che le ha tenute prigioniere. Viera lo ha superando grazie alla partenza per l’Italia, dove ha iniziato a rimettere insieme i pezzi della sua identità, sentendosi su un terreno neutrale; Katarína ancora alla ricerca di se stessa, lacerata dalle tensioni e incomprensioni con la madre, dall’assenza del marito e dalla fine del loro matrimonio, dall’assenza della sorella Dora, da un dolore personale che l’ha colpita e segnata. Dunque una serie di “divorzi di velluto”, non violenti, ma piuttosto attutiti e consumati lentamente, ma appunto delle separazioni: la separazione tra Slovacchia e Repubblica Ceca, la separazione tra Katarína e Eugen, ma anche quelle familiari, tra Dora e la sua famiglia, così come tra Viera e la sua.

Il comunismo aveva reso la ricchezza qualcosa da tenere nascosto, una colpa, un peccato. Il senso di fiducia verso la vita e l’essere degni di viverla pienamente erano solo un miraggio. A quello pensava Viera mentre sorseggiava il vino dopo cena, seduta per terra con la schiena contro il divano, al suo miraggio personale, alla sua voglia di prendersi ciò che la vita le offriva, senza tirarsi indietro.

Divorzio di velluto, pag. 52
Bratislava

Ripercorrendo i ricordi, emergono gli aspetti di com’era la vita durante il periodo comunista e di ciò che quel clima ha prodotto nelle persone che hanno vissuto in un paese oppresso, dove si viveva in una continua alternanza tra menzogna e propaganda. Da un lato la narrazione ufficiale di un paese felice e prospero, dall’altra la realtà dei fatti, dove bisognava fare la fila per ogni cosa, dove molti generi scarseggiavano, dove non si poteva esprimere liberamente il proprio pensiero. Le persone hanno vissuto tutto questo mantenendo una facciata di finta felicità mentre dentro di loro ribollivano la frustrazione e la rassegnazione, stati d’animo che influivano sui rapporti interpersonali soprattutto tra le diverse generazioni: i genitori che hanno così visto fluire le loro vite ormai passate, i figli con questo passato sulle spalle e molte incertezze su un futuro che sembra volere trasformare tutto in una giostra per turisti, come ben evidenziano le considerazioni di Katarína a Praga.

La Cecoslovacchia era durata meno di settantacinque anni, non era mai esistita una nazione “cecoslovacca”, anche se per aumentare la credibilità del nuovo Stato si era cercato di cavalcare questa idea. La lingua e la cultura slovacca si erano sviluppate più tardi rispetto a quelle ceche, e le due non si erano mai veramente amalgamate. (..) Durante il comunismo le divergenze fra le due nazioni si erano un po’ affievolite, il regime rappresentava il nemico comune da combattere per tutti. Ma poi l’avevano sconfitto.

Divorzio di velluto, pag. 70

Parallelamente ed emblematicamente, seguiamo il “divorzio di velluto”, cioè la crisi e l’allontanamento tra Katarìna slovacca e il ceco Eugen: dopo due anni e mezzo il loro matrimonio è entrato in crisi e lei non ha voglia di parlarne con la madre, contraria sin dall’inizio a questa unione. Katarìna finisce per trascorrere il capodanno con Viera a Bologna e subito dopo rivede Eugen in una circostanza tragica; è proprio questo il momento in cui prendere atto di essere giunti ad un punto di non ritorno, dell’impossibilità di ricostruire un’unione che si è lacerata. 

È una storia di assenze che pesano, di tradimenti, di desideri temuti e mai pronunciati, di strappi che chiedono nuove risorse per essere ricomposti, di sradicamento e di rinascita – una ricerca di sé della protagonista e del suo paese, entrambi orfani di un passato solido. La scrittura versatile e profonda di Jana Karšaiová è straordinaria per un’autrice che ha scelto l’italiano come lingua elettiva: bravissima l’autrice a creare una storia privata intensa che si eleva a storia pubblica di alcune generazioni che hanno vissuto un periodo storico particolare.

Personalmente mi è piaciuto molto e spero che il libro continui la sua strada verso l’assegnazione del Premio Strega. Come già mi era capitato leggendo il romanzo di Ornella Vorpsi Il paese dove non si muore mai (qui la mia recensione) ho pensato a quanta ricchezza autrici come loro possono dare alla nostra cultura.

Qui potete leggere l’incipit.

Foto: Feltrinelli

Jana Karšaiová (Bratislava, 1978) Ha iniziato a imparare l’italiano da autodidatta nel 2002; ha vissuto a Praga, a Ostia, a Verona dove ha lavorato come attrice. Dopo una lunga assenza, ha ripreso a lavorare in campo teatrale conducendo laboratori e iniziato a frequentare corsi di scrittura. Divorzio di velluto è il suo primo romanzo.