Il mestiere di leggere. Blog di Pina Bertoli

Letture, riflessioni sull'arte, sulla musica.

Via Gemito

INCIPIT

PARTE PRIMA
Il pavone

Quando mio padre mi disse di aver picchiato mia madre una volta sola durante i ventitré anni del loro matrimonio, nemmeno gli risposi. Era parecchio che non obiettavo più niente ai suoi racconti pieni di avvenimenti, date e dettagli tutti inventati. Da ragazzo lo consideravo un bugiardo e mi vergognavo come se le sue bugie mi appartenessero. Ora, da grande, mi sembrava che non mentisse affatto. Credeva che le sue parole fossero in grado di rifare i fatti secondo i desideri o i rimorsi.
Qualche giorno dopo, però, quella sua puntigliosa precisazione mi ritornò in mente. All’inizio provai disagio, poi un fastidio crescente, quindi la voglia di attaccarmi al telefono e gridargli: «Sí? Una volta sola? E le botte che mi ricordo io fino a poco prima della sua morte cos’erano, carezze?»
Naturalmente non gli telefonai. Pur recitando da decenni il ruolo del figlio devoto, avevo già trovato il modo di dargli sufficienti dispiaceri. E poi non serviva a niente aggredirlo frontalmente. Avrebbe dischiuso la bocca perplesso, come faceva quando gli accadeva qualcosa di imprevisto, per oppormi subito dopo il tono mite che riservava a noi figli ed elencarmi soffertamente in interurbana le prove inoppugnabili del male che aveva fatto non lui a mia madre, ma mia madre a lui. Perciò pensai: «Si inventi quello che vuole, cosa cambia?»
In realtà mi resi conto che cambiava molto. Cambiavo io, tanto per cominciare, e in un modo che non mi piaceva. Sentii, per esempio, che stavo perdendo la capacità di misurare le parole, arte che fin dall’adolescenza mi ero attribuito con orgoglio. Già la frase che avevo desiderato di gridargli («E le botte che mi ricordo io fino a poco prima della sua morte cos’erano, carezze?») non era affatto calibrata. Quando provai a scriverla, mi colpì per il suo andamento rozzo e imprudente. Parevo prossimo a esagerazioni non diverse da quelle di mio padre. Sembrava che volessi rinfacciargli urlando che aveva preso a schiaffi e pugni mia madre anche sul letto dell’agonia, botte date con la perizia del pugile dilettante quale lui raccontava di essere stato a soli quindici anni, nella palestra Belfiore al corso Garibaldi.
Era il segnale che bastava il soffio di vecchissime rabbie e paure per farmi perdere saggezza e spingermi a cancellare le distanze che mi ero imposto crescendo. Di fatto, con quella frase avventata, stavo accettando di mescolare i miei brutti sogni alle sue bugie. Gli davo di nuovo credito, acconsentivo a vederlo come si era voluto rappresentare: uno con cui non si scherza, proprio come aveva imparato a essere da ragazzino, quando il campione d’Europa Bruno Frattini gli offriva lo stomaco sul ring dicendogli col sorriso sulle labbra: «Colpisci, Federí! Colpisci coi calci e coi pugni!» Ah quel campione. Gli aveva insegnato che la paura si vince attaccando per primi e picchiando duro, verità che non aveva più dimenticato. Da allora, alla prima occasione, mirava senza preamboli a spezzare le ossa di chiunque volesse mettergli i piedi in testa.

Domenico Starnone