Il mestiere di leggere. Blog di Pina Bertoli

Letture, riflessioni sull'arte, sulla musica.

Appetricchio

INCIPIT

Terra di mezzo tra montagna e mare, Petricchio era come Narnia: un posto immaginifico escluso dalle mappe e fuori dalle rotte, diviso dal resto del mondo da un ponte malfermo e da un bosco di serpi.
Nemmeno chi ci abitava sapeva dov’era. Se ne stava ammucciato nella Chiana Stinnecchia, un pianoro che si stiracchiava per ettari giù giù, fino quasi al mare. Così stinnecchiata che non la potevi vedere da nessuna angolazione. Ma aveva tutto – terre, animali, acqua – e questo bastava al sostentamento e all’ecosistema.
Quelli che s’avventuravano laffòra e si sentivano chiedere addò stava, davano sempre la stessa risposta: «Arrète a ’o vallone». Qualcuno aveva pure provato a cercarlo, ’sto Petricchio, incappando in burroni e labirinti di alberi che avevano poi dissuaso da ulteriori ricerche.
Il resto del mondo si chiamava laffòra – e tanto bastava. E così a Petricchio, che non aveva piazze e non aveva vie, era tutto un lannànz e un larrète, labbàsh e langòppa, laddìnta e laffòra. Petricchio di pietre, infiltrate di erba da muro e fumaria, che in estate si ammorbidiva di cuscini di ginestre spettinate e s’affollava di cicale che parevano l’allarme di un’auto arrubbata. In alto un cielo stropicciato e là in fondo un tramonto che infiammava l’aria.
Lo spopolamento era iniziato con il nuovo secolo, con bastimenti diretti in America – a volte America di Sopra e a volte di Sotto, ma comunque America. Due o tre pionieri si erano persi subito dopo il vallone, arrivando a Napoli con la nave già partita da una settimana, e perciò se n’erano tornati arrète tra le iasteme e il biasimo popolare, giurando che non avrebbero lassato Petricchio mai più, a costo di morire di pellagra. Poi l’epidemia di spagnola ne falciò una ventina e la guerra altri dieci, l’ondata migratoria a metà degli anni Cinquanta ne sparse un po’ all’Altitalia, un po’ in Spagna e un po’ ’ngul a soreta – come dicevano i decani verso chi abbandonava ’u pais.
Gli emigranti s’arrazzavano l’arrazzabile, lasciavano l’intrasportabile e sprangavano le porte a siglare l’addio. Ma, valli a capi’, si portavano le chiavi. Un fugace stateve ’bbuoni ai vicini e così da trecento erano rimasti in venticinque.
Nessuno più era tornato e nessuno più se n’era fuiuto, anche complice la volubile stabilità del ponte dei Pertusi che, con le sue voragini, aveva fatto rassegnare anche i più intrepidi.
Nessuno s’era più avventurato in macchina sul ponte dal 1960. Troppi pertusi, troppi rischi. Così da vent’anni Petricchio si era autoembargata, se non per sporadiche escursioni sulle due ruote o per i servigi del cantoniere che abitava cinque chilometri cchiu sotto, verso il mare. Raccoglieva le richieste e s’arrecava al comune di Molinaccio, che stava a metà strada tra Petricchio e il mare. Ritirava le lettere fermoposta e le pensioni trattenendosi una percentuale, riempiva taniche di gasolio e scaricava tutto a inizio ponte. Fino a che, fattosi un gruzzoletto, a fine anni Ottanta aveva mollato la casetta rosso pompeiano e i petricchiesi al loro destino.

Venticinque abitanti, di cui metà sordomuti. Sulle cause della patologia nessuno diceva e nessuno indagava: la faccenda era assoluta normalità. Venticinque, che però via via aumentavano grazie ai criaturi e soprattutto alla figliolanza dei Colasuonno, devoti a San Rocco, protettore di emarginati e farmacisti, cani e contagiati. In onore del santo patrono si chiamavano quasi tutti Rocco, non tanto per poca fantasia quanto per facilità espressiva; e ogni Rocco, per distinguersi, s’abbinava al mestiere e non al cognome – anche perché il cognome a Petricchio non serviva.
Il picco demografico veniva raggiunto in estate grazie all’arrivo dei turisti, che in realtà erano solo quattro, la famiglia Bresciani, bresciani di nome e di fatto, con quei saliscendi aspirati dei veri bresciani di Brescia. Tutti veri tranne mamma Rosa, l’ultima a emigrare e l’unica a tornare. Come tutti gli emigrati fingeva di essersi inserita aprendo le vocali fino a giugno, per poi trasformarsi appena rimesso piede a Petricchio, dove spandeva suoni gutturali come un gatto scorticato.
Il Bresciani titolare era Guidodario, un buon uomo dall’intento civilizzatore. Aveva ereditato la farmacia di famiglia e lì si beava tra intrugli e suppostoni. A Petricchio lo chiamavano ‘O Scienziato e adducevano alla sua professione quella gravidanza gemellare di Rosa. I più maligni mormoravano che «chilla all’Altitalia fa ‘u servizio matina e sera», e quindi dagli e dagli ne erano usciti due in un colpo solo – i gemelli Mapi e Lupo.
Sui nomi dei figli si erano a lungo sciarrati. Mapi, contrazione di Maria Piera, la mamma dello Scienziato; Lupo, crasi forzata di Milù e Pietro, i genitori di Rosa. Lupo, che nei sogni di Guidodario voleva essere Leone – in onore della Leonessa d’Italia. Ma niente, per Rosa si doveva fare un nome per uno, e quindi il felino era rimasto canide.
«E comunque suonano bene, insieme», constatò Rosa. «Mapi e Lupo. Senti come suonano bene».

Fabienne Agliardi

Recensione