Il mestiere di leggere. Blog di Pina Bertoli

Letture, riflessioni sull'arte, sulla musica.

Il corpo in cui sono nata

INCIPIT

Sono nata con un neo bianco, che altri chiamano voglia, sulla cornea dell’occhio destro. Sarebbe stata una cosa del tutto irrilevante se la macchia in questione non si fosse trovata nel bel mezzo dell’iride, cioè proprio sulla pupilla, da dove la luce penetra fino al fondo del cervello. All’epoca i trapianti di cornea sui bambini appena nati non si eseguivano ancora: il neo era condannato a rimanere lì per diversi anni. L’ostruzione della pupilla favorì lo sviluppo graduale di una cataratta, così come un tunnel privo di ventilazione si riempie di muffa. L’unica consolazione che in quel momento i medici poterono dare ai miei genitori fu l’attesa. Di sicuro, quando la loro figlia avesse terminato la fase di crescita, la medicina sarebbe progredita abbastanza da poter offrire la soluzione che allora mancava. Nel frattempo consigliarono di sottopormi a una serie di fastidiosi esercizi per sviluppare, nei limiti del possibile, l’occhio pigro. Ciò avveniva con movimenti oculari simili a quelli proposti da Aldous Huxley ne L’arte di vedere ma anche – ed è la cosa che ricordo meglio – con un cerotto che mi tappava l’occhio sinistro per mezza giornata. Era un pezzo di tela con i bordi da incollare come un adesivo. Il cerotto era color carne e mi copriva il viso dalla parte superiore della palpebra all’inizio dello zigomo. A prima vista sembrava che al posto del bulbo oculare avessi soltanto una superficie liscia. Portare quel cerotto provocava in me una sensazione di oppressione e d’ingiustizia; era difficile accettare di farmelo mettere ogni mattina e che nessun nascondiglio o pianto potesse sottrarmi a quel supplizio. Credo di aver opposto resistenza ogni giorno. Sarebbe stato così facile aspettare di essere lasciata davanti alla scuola per strapparmelo, con la stessa noncuranza di quando mi staccavo le croste dalle ginocchia. Eppure, per ragioni che ancora non capisco, non ho mai tentato di levarmelo.

Guadalupe Nettel