INCIPIT
La primavera era agli sgoccioli. Le lancette dell’orologio si avviavano verso le otto e mezzo. Il sole stava per toccare terra come un aereo la pista. Ogni tanto un ponte nascondeva le condutture in cui erano costretti i fiumi. Umidità in aumento, sudore come vapore. In una città che pareva sifilitica, l’asfalto si squagliava. Troppo caldo. Scivolavano anche gli acrobati.
Fili tesi come corde musicali. Tram vuoti nei loro giri. Bottoni slacciati. Vestiti stinti. Vendite d’acqua come mai prima. Portici e vicoli soffocati dall’afa. E come si legge in un grande scrittore, la terra che supplicava un po’ di pioggia. I primi segni dell’abbronzatura, e gli abitanti di lunga data della città che nemmeno di fronte alle telecamere ricordavano una stagione simile.
Francysk si fermò. Si asciugò la fronte. Bloccò con due dita il pendolo del metronomo e tese l’orecchio: in bagno la lavatrice andava a pieno ritmo, in cucina gracchiava immancabile la radio. La “danza delle fabbriche”. I flauti cedevano con gioia la melodia al clarinetto, il tamburo batteva stentoreo come un acquazzone la terra. Un suono assertivo ed enfatico come si conveniva all’orchestra della Radio Televisione di Stato, senza isterismi né concessioni alla scarsa qualità dei musicisti. Francysk posò il violoncello e andò alla finestra. Il metronomo ripartì. Oltre la parete la nonna parlava al telefono. Da un’ora e passa. In cortile si scannavano a pallone. “E’ quasi buio” pensò Cysk. “Se le squadre sono al completo, non mi fanno più giocare”.
Saša Filipenko