Il mestiere di leggere. Blog di Pina Bertoli

Letture, riflessioni sull'arte, sulla musica.

Il campo di Gosto

INCIPIT

Era il suo primo giorno da pensionato e, non avendo da alzarsi presto, Gosto rimase a letto.
Steso sul materasso, gli parve di essere entrato nel tunnel silenzioso che si apre davanti a chi, terminata la vita attiva, ha per meta solo la morte.
C’era a chi mancava la forza di affrontare quell’ultimo tratto d’esistenza, com’era successo a Ilio Casini, trovato in cantina appeso a una trave, o al Cisterni, dentro un pozzo.
Pur essendosi insinuato anche in lui il dubbio di essere diventato inutile, Gosto quel tunnel era determinato a percorrerlo fino in fondo: non è poi tanto lungo, anche se può sembrare interminabile, perché nessuno ti viene più a cercare.
Amici non ne aveva, e meno che mai se n’era fatti durante gli anni passati a Castelnuovo, dapprima a Ruffolo, la casa che aveva condiviso con la moglie Zelia, e poi da solo, nel suo podere di nome Focaia.
A volte si sentiva come un naufrago che, spinto dalle onde dopo tante traversie su una spiaggia deserta, non sapendo dove si trova, nell’assoluto silenzio che lo circonda, sente il peso di essere ancora vivo.
Per sconfiggere quel senso di vuoto e d’inutilità, l’aiutava pensare che, se la mancanza di voglia di fare avesse accelerato la sua fine, la figlia Mirella ne sarebbe stata contenta. Quell’unica figlia era per lui una spina nel fianco.
Gosto voleva soprattutto evitare che, sopravvivendogli, fosse Zelia a vincere la scommessa che lui aveva fatto dentro di sé con lei quando, nei primi tempi della loro convivenza, gli aveva detto che le sue illusioni l’avrebbero portato alla tomba anzitempo.
Pur di carattere introverso, non aveva mai condiviso la visione amara e disillusa che Zelia aveva della vita: lui aveva bisogno, più ancora che del pane, di avere fiducia negli esseri umani, e quando si rendeva conto che non la meritavano, come nel caso di sua figlia, ci stava male.
Anche per evitare delusioni, aveva sempre preferito stare per conto suo.
Zelia invece, per quanto fosse stata sempre lei a fare il primo passo verso gli altri, era convinta che non esistesse sulla faccia della terra, e in specie a Castelnuovo, un solo individuo su cui poter contare.
Nonostante la famiglia in cui era nato – il padre e il fratello erano stati i suoi primi nemici –, Gosto non aveva mai voluto perdere la speranza che spuntasse prima o poi all’orizzonte qualcuno in cui credere.
Ora, nella fase finale della sua esistenza, era pronto a sfidare il vuoto che gli si sarebbe parato ogni giorno davanti.
Nelle acque tranquille cui era giunto dopo anni di venti e di maree, gli sembrava perfino dolce potersi finalmente guardare indietro, vagare fra i ricordi, riflettere sulla gente che aveva incontrato e sul bene e il male che ne aveva tratto.
Per quanto fosse certo che non potesse capitargli più nulla degno di nota – che poteva succedergli ormai? – amava la vita, anche se sempre più spesso pensava alla morte.
La morte, se ti metti a pensare a lei, perde vigore.
Se la guardi in faccia, s’allontana: s’approfitta di quelli che la temono per annientarli anzitempo.
Gosto voleva dimostrarle che non si faceva abbattere dalla sua prossimità, che anzi ricavava soddisfazione dai giorni che gli restavano da vivere.
Nutrire in sé la fiducia nel prossimo, così come la convinzione che chiunque fosse in grado di distinguere il bene dal male, gli aveva permesso, nel corso dell’esistenza, di sentirsi meno solo, in specie quando gli era nata quell’unica figlia.
L’aveva chiamata Mirella.
A volte, guardandosi indietro, gli era capitato di chiedersi a cos’era servita quella sua vita passata in un baleno. Una domanda che restava senza risposta.
Alla fine s’era detto che, dopotutto, almeno una cosa l’aveva fatta: aveva perpetuato la specie.
Ma ora, alla sola immagine della figlia, quella risposta che s’era dato, lungi dal tranquillizzarlo, l’angustiava ancora di più.
L’aveva mantenuta con il suo lavoro, che era consistito nel consegnare con un camioncino, alle trattorie, ai ristoranti, alle botteghe e ai privati, casse di vino, d’olio, di aceto, a volte anche di frutta.
Gli si chiedeva di essere puntuale e guidare con prudenza e lui l’aveva fatto: ci teneva a quell’impiego presso l’azienda agricola Il Palazzaccio, che gli consentiva di non stare gomito a gomito tutto il giorno con gli altri dipendenti e sottrarsi alla loro meschinità sempre in agguato. Non gli piaceva sentire le loro battute grasse a spese dell’uno o dell’altro, i loro discorsi sulle partite, sul cibo, sulle donne: argomenti di chi non aveva immaginazione e niente in cui credere. Al contrario di loro, lui era un essere schivo e fattivo e, da quando era stato assunto, considerava il suo tempo libero come un dono di Dio. E questo aveva esacerbato la sua solitudine.
Il Palazzaccio era una casa di mattoni a tre piani, circondata da cipressi e da oliveti, sinistra da quando apparteneva a Guelfo Tagliaferri, uno che faceva affidamento prima di tutto sull’arroganza, anche se, andava riconosciuto, non aspettava che i soldi gli piovessero nel piatto: arava lui la terra e curava le viti, trovando pure il tempo per andare a caccia.
Del suo vino Gosto però non riusciva a buttare giù più di un sorso: il vino porta in sé l’anima di chi lo fa.
Il Tagliaferri un giorno gli aveva detto: «Ti do il permesso di effettuare, col mio camioncino, anche rimesse per conto terzi, però fuori dall’orario di lavoro, così potrai intascarti quel che ti danno, ma la benzina in tal caso te la paghi da te».
Così a volte Gosto, concluse le consegne, trasportava anche letti, materassi, divanetti per chi glielo veniva a chiedere, senza impaccarli, trattandosi sempre di roba di poco conto.
Quando nevicava, il comune si rivolgeva a lui per trasportare i sacchi di sale da spargere sull’asfalto la mattina presto per far sciogliere il ghiaccio.
Veniva ad aiutarlo il figliolo del Beci, Giuliano, che non aveva voglia di far niente ma a lui non diceva mai di no.

Anna Luisa Pignatelli

Recensione

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