INCIPIT
Aveva la forma di un casolare di campagna, la mia casa, anche se si trovava in città, a un paio di chilometri dal centro di Torino. Era circondata da un piccolo prato e da alti palazzi che si facevano sempre più numerosi e prossimi, e che col tempo finirono per soffocarla.
Ma nel 1971, quando avevo sei anni, la mia casa ancora respirava l’odore fresco dei prati e il sentore salmastro della Dora che vi scorreva sul retro, talvolta quieta e trasparente, talaltra irruente e torbida.
A chi la vedeva dall’esterno la casa sulla Dora poteva sembrare sciatta e un po’ malconcia: il praticello che la fronteggiava (che con grande ottimismo noi di famiglia chiamavamo “giardino”) era costellato di vasi vuoti o pieni di erbacce e, nel mezzo di quella piccola landa desolata, si ergeva una fontanella sghemba con un Bacco sghignazzante che sputacchiava fiotti d’acqua dalla bocca sdentata – ma soltanto quand’era di buonumore.
Sul retro della casa c’era un piccolo orto ancor più derelitto del giardino, del quale, a turno, ogni membro della famiglia provò a farsi carico per poi abbandonarlo subito a se stesso.
«Vado nell’orto!».
Quando uno di noi pronunciava questa frase, non significava che avesse intenzione di strappare le erbacce che assediavano la cicorietta piantata anni prima che continuava a riproporsi, di anno in anno, sempre più inselvatichita, bensì che desiderava starsene un po’ per conto proprio ad ascoltare l’immutabile borbottio della Dora, attendendo che il fluire dell’acqua verde trascinasse via le sue preoccupazioni, mentre le lenzuola stese ad asciugare si gonfiavano a ogni alito di vento, simili a piccoli velieri pronti a salpare.
Se l’esterno di casa nostra versava in uno stato di semiabbandono, l’interno era lindo e, a suo modo, ordinato: i vecchi pavimenti a disegni geometrici erano lustri di cera, i tendaggi spessi e inamidati odoravano di sapone di Marsiglia e le pareti erano ravvivate da decine di quadri da pochi soldi che riproducevano una gran varietà di soggetti, dalle nature morte agli animali mitologici, passando per i santi in estasi.
Proprio come i quadri, anche i mobili erano tanti – diciamo pure troppi – nonché differenti l’uno dall’altro. Ognuno di essi era approdato nelle nostre stanze seguendo percorsi labirintici: lasciti testamentari, regali o acquisti compulsivi a un mercatino delle pulci. La cosa sorprendente era che ogni nuovo mobile o suppellettile che entrava in casa nostra vi trovava naturalmente il suo posto, armonizzandosi col resto dell’arredamento senza richiedere che qualcos’altro venisse gettato via per fargli spazio. Ciò che entrava dalla nostra porta vi rimaneva in pianta stabile, perché la casa sulla Dora era una dimora straordinariamente accogliente, tanto con gli oggetti quanto con le persone.
Col suo mobilio raffazzonato e le carabattole che la infestavano, quella casa in fondo non aveva nulla di davvero speciale, salvo un dettaglio che a molti potrebbe apparire un difetto, ma che noi di famiglia tenevamo in gran considerazione: il rumore.
Il rumore di cui parlo non era un fattore esogeno come il rombare delle automobili o lo sferragliare del tram in strada, ma scaturiva dalle sue stesse stanze ed era alimentato da noi che ci abitavamo, sempre attenti a non lasciarlo mai spegnere, proprio come si fa con la fiamma dell’ultima candela durante un temporale che ha fatto saltare la corrente elettrica.
Eravamo gente comune, che nella casa sulla Dora faceva cose comuni, solo che le facevamo emettendo il maggior fracasso possibile: sbattevamo le porte, ci lanciavamo lungo le scale facendo rimbombare ogni gradino, trascinavamo le sedie sul pavimento costringendole a gemere e ci chiamavamo a voce spiegata da una camera all’altra come se una sterminata distanza ci separasse. Persino zia Maddalena, che aveva il cuore debole ed era bloccata a letto da prima che io nascessi, rimestava le sue medicine facendo tintinnare il cucchiaino sul vetro del bicchiere sino a produrre il rintocco di un campanaccio.
Mi sono chiesta tante volte del perché facessimo tutto quel baccano. Forse il prato attorno alla casa e il borbottio continuo del fiume ci inducevano a pensare che, giacché non potevamo disturbare nessuno, tanto valeva che indulgessimo nella più sfrenata baraonda; o magari il far fracasso con le nostre voci sguaiate e i gesti noncuranti ci ricordava che eravamo vivi e che stare al mondo, tutto sommato, era una cosa piacevole.
Sì, a ripensarci ora, doveva essere proprio per questa seconda ragione se tutti ci impegnavamo ad alimentare costantemente il rumore di casa; tutti tranne mio cugino Fulvio.
Desy Icardi