Il mestiere di leggere. Blog di Pina Bertoli

Letture, riflessioni sull'arte, sulla musica.

La casa dei Gunner

INCIPIT

Quando aveva sei anni, Mikey Callahan scoprì una cosa su sé stesso. Lei e i compagni di prima elementare vennero chiamati fuori dall’aula a uno a uno e portati in palestra per un controllo medico di routine. La donna che urlò il suo nome (chiamandolo però Michael, non Mikey, come lo conoscevano i suoi compagni di classe) lo accompagnò lungo il corridoio tenendolo per mano, e aveva le dita ruvide e fredde come gusci. In palestra c’erano tavoli rettangolari, paraventi, blocchi per appunti, adulti vestiti di bianco. Un uomo con i baffi color ruggine gli infilò una punta di gomma gelida nelle orecchie, le esaminò e poi fece fare a Mikey una serie di semplici esercizi: gli disse di chiudere gli occhi e ripetere le parole che gli sussurrava, poi di ascoltare due suoni registrati e dirgli quale gli sembrava più forte. Mikey passò alla postazione successiva, dove gli fecero di nuovo chiudere gli occhi; stavolta dove dire «Ora» quando si sentiva toccare sul viso o sul braccio con la punta di una penna. Facile. Per Mikey era meglio che stare seduto in classe, e poi gli piaceva essere sfiorato in quel modo. Un tocco delicato, clinico. Nell’ultima postazione, su un cavalletto alla fine di un lungo tavolo, c’era un foglio bianco con una piramide di lettere nere disegnate. Una donna in piedi accanto al cavalletto indicava le lettere a una a una e Mikey doveva leggerle ad alta voce. Le lettere si rimpicciolivano via via che si scendeva lungo la pagina e Mikey fece fatica a leggere le ultime due righe. La donna scrisse qualcosa sul blocco che aveva in mano; poi gli passò un cucchiaio di plastica nero e gli chiese di coprirsi l’occhio sinistro. Sostituì la serie di lettere con una nuova e gli fece ripetere l’esercizio, con risultati simili. Poi disse: «Adesso copriti l’altro occhio», e girò un’altra pagina sul cavalletto. Mikey non si portò il cucchiaio al viso. Sentì che il calore del sangue gli arrossava le guance. «Ma è l’occhio buono», obiettò.

Rebecca Kauffman

Recensione

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