INCIPIT
Hanna
Il piano del tavolo di legno chiaro sembrava intatto finché non avvicinavi l’occhio e lo guardavi di sbieco. Alla luce vivida che entrava dalla finestra si notavano i cerchi traslucidi lasciati dai bicchieri e le macchie scolorite di vino e di sugo. Il panorama consisteva in cespugli di betulla, muschio, un torrente dal corso rapido e sulla sponda opposta un monte arrotondato e dai versanti ripidi che a me per la verità sembrava semmai un colle, qualsiasi fosse la differenza tra le due cose. Adesso so che un colle è un monte più basso e più piatto alla sommità, che si staglia isolato nel paesaggio.
Mi trovavo nella casa di villeggiatura che la mamma aveva avuto in prestito da Aðalsteinn, l’imprenditore. Era la metà di agosto, la fine di un’estate piovosa. Era tutto fitto di vegetazione e l’erba cominciava a coricarsi, il cerfoglio aveva smesso di fiorire e le betulle avevano già qualche foglia ingiallita.
Dopo aver gironzolato in casa per ore, postando foto della testata del letto intarsiata e dei fiori di plastica impolverati nella camera in cui dormivo, sfogliando vecchi libri che puzzavano di sottobosco e di vestiti usati, guardando fuori dalle finestre sprofondata in una mezza trance indotta dal cinguettio degli uccelli, mi misi a frugare nei pensili della cucina.
Non mi passava nemmeno per la testa di uscire, anche se ero intorpidita per la mancanza di movimento.
Le etichette sui barattoli delle spezie erano sbiadite. Cannella, origano, pimento, sale all’aglio. Farina, zucchero, lievito. Pensai a dei pönnukökur* e avvertii qualcosa di simile a un uggiolio salire lungo la spina dorsale e sbocciare alla sommità del capo. Non era fame, quella che sentivo, semmai un’avversione nei confronti del cibo. Sapevo di essere troppo magra e per questo più immatura di quanto dichiarava la mia età, ma probabilmente era proprio la mia aspirazione. Rimandare la vita.
La mamma mi aveva portata dallo psicologo e non era riuscita a trattenersi: « Mia figlia stava diventando una donna e adesso è tornata bambina», aveva esclamato con le lacrime agli occhi fissando il medico, che era alto, con le mascelle forti ma senza mento. Gli occhi di un azzurro acquoso e i capelli brizzolati tagliati corti. «Mia figlia era sicura di sé, e adesso striscia lungo le pareti. Aveva delle amiche…»
«Ho delle amiche», l’avevo interrotta io.
La mamma aveva scosso la testa: «Preferisce stare a casa a studiare invece che uscire con le amiche. Canta nel coro, la consideravano una solista promettente e adesso ha perso la voce. Aveva dei bei capelli folti, e guardi qui cos’è rimasto», aveva aggiunto, e le sue dita tremanti mi avevano solleticato il collo. Le avevo allontanate con la mano.
Era stato come se nella testa dello psicologo si fosse spenta la luce; non riusciva a prendere sul serio quella donna esagitata. Si era rivolto a me: «Mi sai dire il nome di qualche modella famosa? Sai quante calorie ci sono in una mela?»
Io gli avevo risposto di no. Il medico si era girato a guardare la mamma, trionfante.
Guðrún Eva Mínervudóttir
*Tipiche frittelle dolci aromatizzate alla cannella. (N.d.T.)