Il mestiere di leggere. Blog di Pina Bertoli

Letture, riflessioni sull'arte, sulla musica.

Tradite

INCIPIT

In esilio sapevano che niente poteva durare, eppure la famiglia cercò di sentirsi a casa nel nuovo paese. Il padre delle due sorelle faceva le ore piccole giocando a poker con gli altri dissidenti filippini rifugiati a San Francisco, mentre la madre impegnava i propri gioielli e dava feste danzanti un weekend sì e uno no.
A puntello della propria vita, si erano fabbricati dei riti. Ogni domenica dopo la messa Lali, Pilar e il padre si imbacuccavano in maglioni pesanti e percorrevano i pochi isolati che li separavano dalla spiaggia, dove giovanotti a torso nudo giocavano a frisbee e donne in pantaloncini corti correvano sul bagnasciuga. Sia gli uomini che le donne osservavano le sorelle, poco più che ventenni, dai lunghi capelli neri e i volti eurasiatici, così particolari e intensi ma per nulla simili. Lali sorrideva e sosteneva lo sguardo di ogni uomo che le piaceva, mentre Pilar chinava la testa e incespicava stringendosi al padre. Gregorio non faceva caso agli uomini, ma conosceva le figlie. Le cingeva alla vita e mentre con un braccio teneva a freno Lali, con l’altro rassicurava Pilar, come era sempre stato.
Ogni domenica l’attempato dissidente e le figlie passeggiavano sulla lunga distesa di sabbia, tra falò e surfisti, guardando il frangersi delle onde grigie e pensando, pur senza parlarne, al paese sull’altra sponda di quell’oceano. Dopo otto anni di esilio politico la famiglia stava cominciando a vivere come se una vita lontano da Manila fosse possibile.
Nel momento in cui quella vita finì, a metà di un pomeriggio soleggiato, Pilar era vicino alla parete del soggiorno e ascoltava Lali e il suo ragazzo che facevano l’amore. La voce di Arturo, greve e dura. Più veloce, lo sentì dire. Pilar attraversò di corsa la stanza, alzò il volume della radio. Il chiacchiericcio dei conduttori, i motivetti pubblicitari, la musica pop-rock. Spinse il piccolo tavolo da pranzo contro la parete, prese una tovaglia di plastica e ve la distese sopra. Aprì strappandoli i pacchetti di stagnola e rovesciò le noccioline nelle ciotole di legno.
La voce di Lali, che gridava. Nessuna parola. L’appartamento era troppo scuro, troppo piccolo. Pilar si tappò le orecchie con le mani. Ma quand’è che tornava sua madre? E suo padre era uscito di nuovo, per fare un giro o andare a trovare qualcuno, fingendo che la vita in questo paese avesse ritmi e ragioni che potessero distrarli da tutto quello che avevano perso.
Altre grida. Lali non la smetteva più. Era senza pudore. Il loro padre aveva passato la vita a combattere il Generale, e Lali era a letto con il figlioccio di quello stesso Generale.
La radio gracchiava. Pilar sistemò i mazzi di carte e le fiches del poker su un tavolino pieghevole. Prese a canticchiare il ritornello di una canzone che aveva sentito quella mattina alla radio, nel tentativo di coprire i rumori che arrivavano dall’altro lato della parete.
Un altro grido. Nella stanza che divideva con la sorella, Lali dava spettacolo. Non ne aveva il diritto. Sapeva che Pilar poteva sentirla. Voleva che Pilar la sentisse. Di nuovo la voce di Arturo. Bellissimo, disse. Non c’era niente di bello nella sua voce.
Dov’era papà?
Entrò nel bagno cieco, piastrellato di rosa, chiuse a chiave la porta e aprì il rubinetto del lavabo. Scostò la tenda di plastica e fece andare anche la doccia. Lo scorrere dell’acqua sommerse le loro voci. Spense la luce, si svestì, entrò nella doccia. Non guardò il proprio corpo, non voleva sentirselo sotto le mani, perciò insaponò una salvietta e si strofinò con quella. Aumentò il getto, alzò il viso verso l’acqua calda e scrosciante, chiuse gli occhi finché non sentì e non udì più niente.

Reine Arcache Melvin

Recensione

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