“Io mi ero seduto alla scrivania di mio padre – non lo avevo mai fatto – e guardavo la pagina del libro che aveva scritto fino a poco prima. Non era riuscito a finire l’ultima frase, o quanto meno non ci aveva messo il punto. Sfogliai il volume. Le pagine erano così piene, vergate così fitte che non ci restava un solo angolino bianco. Le ultime dieci o quindici erano ancora vuote. Bianche. Era morto prima del tempo.”

Il libro di mio padre, di Urs Widmer, Keller Editore 2017, traduzione di Roberta Gado, pagg. 222

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Se stessimo guardando questo romanzo come si guarda una scena lontana con un teleobiettivo, potremmo stringere fino ad inquadrare solo l’uomo che si staglia al centro: saremmo così di fronte al protagonista, Karl, il padre che emerge dalla memoria, dai ricordi. Ma aprendo l’obiettivo, tornando indietro nei piani inquadrati, si riescono a cogliere tutti quelli che intorno a lui si muovono: il figlio – cioè colui che scrive la storia – la moglie, e via via tutta la galleria di personaggi che ruota intorno a lui, dando un senso corale di vita vissuta in mezzo agli altri.

Perché questo bel romanzo ci propone un viaggio nella memoria per non dimenticare ogni momento di vita della persona più cara allo scrittore: il padre. Lo spunto narrativo prende forma dal libro che il padre ha ricevuto al compimento del dodicesimo anno – tradizione tramandata di generazione in generazione, attuata attraverso un rito iniziatico – e sul quale ha annotato, giorno dopo giorno, gli avvenimenti della sua vita. Il libro, però, dopo avere accompagnato l’uomo per tutto l’arco della sua vita, viene inavvertitamente perso proprio subito dopo la sua morte. Il figlio – l’autore – coglie così la necessità di ripercorrere la vita del padre attraverso il ricordo.

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Il libro bianco è una presenza costante, è in se stesso la metafora dello scopo della scrittura: la conservazione della memoria. Viene affidato al ragazzino affinché vi annoti ogni giorno ciò che gli accade, divenendo così il simbolo della memoria, della sua importanza, del non volere abbandonare all’oblio chi, oltre la sua generazione, scomparirà dai ricordi. E il libro bianco potrebbe forse essere la molla che ha fatto scattare in questo uomo l’urgenza della scrittura e farla divenire il suo mestiere, se non lo scopo principale della sua vita.

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Il romanzo è dunque la ricostruzione della vita del padre, Karl Widmer, traduttore e critico letterario: dalla sua infanzia, agli anni giovanili trascorsi a Parigi, al ritorno in Svizzera, a Basilea, lungo un arco temporale che va dai primi anni del ‘900, passando attraverso la Seconda Guerra mondiale, fino al dopoguerra. Una vita votata alla cultura nelle sue espressioni letterarie ed artistiche, popolata di persone comuni – l’entourage familiare – e di artisti appartenenti alle avanguardie pittoriche e letterarie – tra cui un allievo di Kirchner, gli scrittori del Gruppo 33, e Heinrich Böll.

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Un romanzo che si legge con grande piacere, pagina dopo pagina, senza mai annoiarsi perché l’autore ha uno stile molto fluido, a volte ironico e leggero, altre più profondo e riflessivo. Si tiene il passo dietro al figlio che ricostruisce la lunga vita del padre come se stesse componendo un grande puzzle, accostando i pezzi l’uno all’altro e svelando via via i particolari di un’esistenza densa e originale: la figura che ne emerge è un uomo completamente dedicato alla letteratura, perennemente attaccato alla macchina da scrivere tanto da instillare nel figlio il dubbio che sia nato con lei, incoscientemente pronto a dilapidare tutti i soldi per comprare rare edizioni di libri e di dischi, fumatore incallito, comunista utopico.

Ci sono episodi divertenti, come quello magistrale dove si narra il rito iniziatico della consegna del libro – il passaggio all’età adulta – che si svolge nel paesello in montagna; un gruppo di case abbarbicate sulle pendici del monte, dove camminando per le strade si scorgono, vicino a ciascuna casa, le bare che serviranno ai loro occupanti quando saluteranno il mondo terreno. E sì, perché la tradizione vuole che quando un bimbo nasce, gli venga subito donata la bara che gli servirà- il più avanti possibile! – alla fine della sua esistenza. Una bella metafora del memento mori!

Karl vide subito anche le bare. Se le aspettava, così come si aspettava i muli, e quindi non si spaventò, o quasi non si spaventò, nemmeno quando scorse le prime davanti a una delle case. Tre casse della misura di un uomo, una accanto all’altra. Guardò di casa in casa. Tutte, nessuna esclusa, ne esponevano di analoghe, perlopiù di legno vecchio e slavato, certe anche di legno nuovo, piallato di fresco. Erano accatastate con cura e disposte in fila, qui cinque o dieci, là soltanto due. (..) In paese ogni nuovo nato riceveva in dono la bara in cui lo avrebbero sepolto a tempo debito. Fino allora la cassa aspettava fuori dalla porta.

Il racconto è impregnato di ammirazione e amore per il padre, ma mantiene quella visione realistica che riesce a cogliere anche le debolezze e le manie, presentandole con ironia e comprensione. Dunque non un’esaltazione, né una dura disanima – nemmeno quando il padre si dimostra assente dalla vita del figlioletto – ma un quadro reale, molto umano e onesto.

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L’incipit lo trovate qui.