«Risolvere il problema». Negli ultimi anni in quella istituzione si era imposto un sorprendente slittamento linguistico, nessuno se n’era accorto o comunque nessuno l’aveva commentato o criticato. Mentre prima si diceva: «risolvere il problema», adesso la frase era: «arrivare a una soluzione del problema». Se prima si parlava di: «prendere una decisione», adesso si diceva: «giungere a una decisione». Invece di «analizzare qualcosa», ora bisognava «sottoporre ad analisi». Se un tempo si «adottavano le misure necessarie», adesso le misure venivano «avviate». Sarebbe stato possibile stilare un intero lessico della nuova «lingua della comitatologia», ed era sorprendente come in quella babele determinate tendenze linguistiche diventassero subito patrimonio comune di tutti gli idiomi. Non era uno studioso di semiotica né di ermeneutica, non era un linguista, ma aveva la netta sensazione che quell’evoluzione fosse un segnale, un sintomo significativo per valutare lo stato di salute della Commissione, la sua impotenza, il suo torpore.(pag 369)
La capitale, di Robert Menasse, Sellerio editore 2018, traduzione di Marina Pugliano e Valentina Tortelli, pagg 445. Vincitore del Deutscher Buchpreis 2017, finalista al Premio strega Europeo 2019
Il romanzo di Robert Menasse mette al centro dell’attenzione l’Europa di Bruxelles, il suo potere, la burocrazia, gli equilibri tra le varie direzioni che compongono la Commissione e che portano avanti interessi e progetti spesso più per proprio lustro e successo che non in funzione di un bene più alto. Direzioni popolate da eccellenti professionisti, laureati nelle migliori università e scuole di specializzazione, forti di appoggi e alleanze, attenti a evitare errori, sempre in guardia e sulla difensiva nei reciproci rapporti.
(..) alte sfere governate dagli «enarchi», i laureati nelle fucine dei quadri come l’École Nationale d’Administration, uomini super snelli che indossavano abiti poco appariscenti e non troppo costosi, asceti sotto ogni punto di vista: capaci di negoziare per ore e nottate intere. Non sembravano aver bisogno di mangiare e dormire, se la cavavano con poche parole e qualche gesto, evitavano di mandare l’anima in crisi iperglicemica con la dolcezza dell’empatia, non avevano bisogno di apparire in pubblico, si accontentavano del metabolismo all’interno del potere, di brillare all’esterno facevano a meno. Nella vita e nel lavoro erano banditi gli orpelli, tutto era chiaro quanto invisibile.(pag 270)
Un romanzo scritto da chi questo universo della diplomazia lo conosce bene, ne ha compreso i meccanismi e interrelazioni, così come il genere di persone che, tutte assieme, costituiscono questo enorme apparato, la cui popolarità ed utilità sono sempre più messi in discussione, soprattutto negli anni che stiamo vivendo, laddove i ritorni di nazionalismo e sovranismo stanno mettendo in dubbio addirittura i valori fondanti di una istituzione che, nata dopo le catastrofi belliche del Novecento, intendeva evitarne altre, appellandosi al motto «Mai più».
Il romanzo esplora questo intrico di potere mettendo in scena una trama e una serie di personaggi, ciascuno emblematico rispetto alle questioni in ballo, ognuno rappresentativo dei vari tasselli che compongono il puzzle del potere europeo, molti dei quali rosi dalla determinazione ad accrescere il proprio potere e, di riflesso, quello della direzione per la quale operano.
La trama porta avanti in parallelo alcune vicende che alla fine sotto tutte correlate tra loro, mettendo bene in chiaro il trend dominante e i pochi sprazzi di un idealismo che, per alcuni, rimane il motore fondamentale al proprio operato. Su tutto, aleggia la presenza inquietante del maiale, ironica e devastante figura che assume diversi connotati: l’animale che sbuca per le strade di Bruxelles, avvistato e ripreso da telecamere di sorveglianza, portato alla ribalta della cronaca dai giornali; l’oggetto di un mercato che accomuna molti paesi europei e che sta mettendo in crisi il modello di trattative internazionale, laddove la Cina – paese importatore in quantità massicce – corre la sua utilitaristica gara a sigillare trattative bilaterali con l’obiettivo di allargare le crepe del fronte comune; la metafora di certe forme di razzismo che l’animale catalizza nel lessico e nelle usanze.
I temi che entrano nella storia sono molteplici e tutti strettamente correlati. Da un lato c’è Fenia Xenopoulou, cipriota di etnia greca, che dopo studi eccelsi e una folgorante carriera, viene messa a capo di una Direzione, traguardo significativo ma nella Direzione che lei – e non solo – ritiene meno importante, quella della Comunicazione, all’interno della Direzione generale Cultura; a lei e ai suoi collaboratori viene affidato un progetto per rilanciare l’immagine della Commissione europea, ed è subito chiaro che su questo scoglio si giocherà la sua futura carriera. Al suo fianco conosciamo Mrs Atkinson (inglese) e Bohumil Szmekal (ceco con passaporto austriaco), e lo sfuggente fidanzato Kai-Uwe Frigge (tedesco). Ma è soprattutto Martin Susman (austriaco) la pedina che si muove su una scacchiera molto scivolosa e che prova a difendere il progetto in nome – lui sì – di un ancora sentito ideale.
La vicenda è ulteriormente arricchita e completata da un assassinio, inizialmente e apparentemente slegato dalla vicenda, che invece si rivela anch’esso un tassello chiave per comprendere i poteri in ombra (servizi segreti e Vaticano). Grazie a questa vicenda, entrano in gioco altri personaggi: il commissario belga Brunfaut e Mateusz Oswiecki, polacco, con una storia personale inquietante.
E poi il conte Strozzi, eccentrico italiano discendente di una famiglia aristocratica con un passato che sarebbe meglio non sbandierare, capo gabinetto del Presidente della Commissione europea: un abile manovratore, uno scaltro burattinaio capace di imprimere ad ogni vicenda la sua personale visione.
E poi i due personaggi che attirano le maggiori simpatie – o almeno, le mie. Il professor Alois Erhart (austriaco), uno dei pochi idealisti ancora in circolazione, e il vecchio David de Vriend, uno degli ultimi ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio, con una storia personale emblematica, simbolo vivente di cosa rappresenti il motto «Mai più Auschwitz».
Il grande pregio di questo romanzo, a mio parere, è che attraverso il dispositivo narrativo riesce ad essere assai più convincente di qualsiasi saggio socio-politico: ben si comprendono le logiche di potere, il logorante meccanismo che divora da dentro l’apparato, e i pericoli che tutto questo, visto da fuori, spinga sempre più ampie fette di popolazione europea a perdere fiducia nella necessità di questa istituzione, attaccata da molte parti, sfiduciata nei fatti, e in balia delle spinte al nazionalismo. A sorreggere magnificamente la costruzione narrativa sta la scrittura dell’autore, capace di mischiare ironia e introspezione, autorevolezza – proveniente dalla profonda conoscenza del sistema -, argomentazioni filosofiche e tanta umanità, fino a confezionare un romanzo che appassiona e fa riflettere.
Non mi dilungo a tratteggiare la trama perché, come sempre, ritengo che il piacere della lettura debba essere esperienza personale e non riportata; vi dico solo che non ci si annoia!
Robert Menasse (Vienna, 1954) ha studiato germanistica, filosofia e scienze politiche a Vienna, Salisburgo e Messina. Traduttore dal portoghese, nel 1998 ha ricevuto il Premio nazionale austriaco per la saggistica e nel 2015 il Prix Européen du Livre per il saggio Der Europäische Landbote. Dal 2005 si occupa di questioni legate all’Europa e all’Unione europea e nel 2012 è stato ospite della Commissione europea in qualità di osservatore. Tra i suoi romanzi, Don Juan de la Mancha. La riscoperta del piacere (2008) e Ich kann jeder sagen(2009). Con questa casa editrice ha pubblicato La capitale (2018), Deutscher Buchpreis 2017 e finalista al Premio Strega Europeo 2019, e Un messaggero per l’Europa (2019).
Qui potete leggere l’incipit.
Sembra una lettura decisamente interessante, specialmente in una settimana come questa. Grazie per la bella recensione. P.S. Quel Bohumil mi fa pensare a un altro Bohumil: mi viene da chiedermi se i nomi di questi personaggi non nascondano qualcosa…
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eh… occhio esperto….
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Come sempre le tue recensioni sono splendide!
“Il romanzo di Robert Menasse mette al centro dell’attenzione l’Europa di Bruxelles, il suo potere, la burocrazia, gli equilibri tra le varie direzioni che compongono la commissione e che portano avanti interessi e progetti spesso più per proprio lustro e successo”
Abbiamo bisogno di scrittori critici, realmente impegnati a vivere l’umanità
un abbraccio
Adriana
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e soprattutto capaci di lasciare aperta la porta alla speranza…
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