Laura si diresse lentamente verso la Biscia. Si era levata una nebbia che aveva completamente coperto la sponda opposta e l’acqua appariva torbida, di un bianco fumoso, come se vi fosse stato versato del latte. Sulla riva si spogliò, lasciò i vestiti sul pontile, camminò a lungo sul fondo sabbioso finché l’acqua non diventò profonda e vi entrò con tutto il corpo – e la nebbia avvolse anche lei. Nuotava senza vedere o sentire nulla, in un paesaggio fatato, irreale. Quel mondo lontano e misterioso, nascosto dalla nebbia, l’attirava con un’illusione d’infinito e lei vi nuotava incontro, nuotava e nuotava senza provare stanchezza, l’acqua compatta e pesante la sosteneva e scivolava sotto di lei come un tapis roulant. Ma girandosi indietro vide emergere di nuovo la riva scura, massiccia e familiare, che la teneva legata a sé come con un filo di seta grigia, e lei obbediente ritornò, camminò a lungo e lentamente sul fondo solido e irregolare, poi sulla sabbia in cui affondava fino alle caviglie come nella cenere. (pag. 30-31)
Il pozzo, di Regīna Ezera, Iperborea editore 2019, pagg. 347, traduzione di Margherita Carbonaro
Finalmente possiamo leggere in italiano questo splendido romanzo – pubblicato nel 1972 – nella bella traduzione di Margherita Carbonaro, grazie al cui lavoro sono arrivati da noi anche Il latte della madre di Nora Ikstena, e Come tessere di un domino, di Zigmunds Skujiņš.
L’edizione di Iperborea è corredata dalla postfazione della traduttrice che chiarisce e completa il profilo della scrittrice e la genesi del libro.
La molla che probabilmente spinse Regīna Ezera a scrivere questo romanzo fu il suo amore impossibile per Gunārs Priede – drammaturgo molto noto in Lettonia. Ezera scrisse senza spedirle un fascio di lettere; decise poi di inviarle all’uomo, per manifestare i suoi sentimenti. Ma quelle lettere tornarono indietro, tutte insieme, così come erano state raccolte, con un messaggio definitivo: «Non scriviamoci lettere, ma ciascuno scriva le sue opere letterarie.» Un rifiuto che era dettato dall’omosessualità del destinatario, tenuta nascosta per non incorrere in problemi in un regime che la riteneva un grave reato, ma di cui Ezera non era a conoscenza.
E “Il pozzo” narra, con rara delicatezza e poesia, di un amore impossibile. E, leggendolo, non si può ignorare la sua autrice e la sua biografia, poiché molti dei suoi tratti e delle vicende di una vita, riecheggiano nel narrato.
Il romanzo è ambientato nelle soleggiate giornate di agosto, nella canicola del giorno e nelle nebbie sfumate dei tramonti e delle albe, sulla riva di un grande lago, la Biscia: una cornice che Ezera descrive con una prosa ricercata, altamente evocativa e immaginifica, ricercando e mostrando ogni dettaglio con una precisione che rasenta la perfezione, offrendo al lettore una visione chiara di un paesaggio che partecipa allo svolgersi del racconto, che riflette gli umori e le emozioni dei protagonisti, come lo specchio d’acqua riflette ciò che lo circonda.

Regīna Šamreto era nata a Riga, in un quartiere modesto, come la sua famiglia. Dopo le vicissitudini familiari legate alla guerra e al passaggio della Lettonia nell’universo sovietico, la scrittrice, nel 1965, acquista una casa in campagna, non lontano da Riga, sulle sponde del fiume Daugava. Qui conduce una vita semplice: si occupa della casa, dell’orto, fa lunghe passeggiate, scrive. E cambia il suo cognome. Decide di chiamarsi Ezera, che significa lago.
È fondamentale indagare la sua biografia per capire appieno questo romanzo che riproduce l’ambiente in cui lei era immersa: il grande fiume assume le sembianze di un placido lago attorno al quale ruota la vita dei protagonisti e, in uno scambio quasi osmotico, ne sostanzia l’esistenza.
La protagonista, Laura, ha un aspetto dimesso, quasi grigio, come gli abiti semplici che indossa, eppure da lei, dalla sua ferma calma, emana un fascino difficile da afferrare fino in fondo. Laura vive con la suocera, la cognata e i due figli, in un menage familiare non facile, ma che lei riesce comunque a tenere in equilibrio nonostante la sua difficile condizione esistenziale. Suo marito Ričs è in carcere perché durante una battuta di caccia in cui era ubriaco – lo era praticamente sempre – uccide un amico. La sua assenza pesa, complica i rapporti tra le donne, si ripercuote sui figlioletti e soprattutto incide sulla sua emotività. A lei spetta il ruolo di capofamiglia, deve occuparsi di riparazioni, approvvigionamenti; nell’estate in cui è costruito il racconto, nonostante la scuola sia chiusa e lei che è maestra sia in vacanza, si occupa anche della ristrutturazione dell’edifico scolastico. Sembra che in questo affastellarsi di compiti e doveri, ricerchi un modo per riempire la sua vita, per non lasciare spazi vuoti in cui perdersi.
In una delle case affacciate sulle sponde del lago arriva Rūdolfs, medico di Riga in vacanza, ospite da una famiglia che ha sempre vissuto lì, e che conosce la storia della famiglia del marito di Laura. Grazie ai racconti della padrona di casa, Marjia, e di suo marito Eidis, Rūdolfs viene a conoscenza del torbido passato di casa Tomariņi. Il medico è affascinato dal luogo, dalle atmosfere del lago; lo è ancor più dalla personalità schiva della donna, dal suo sorriso timido ed evasivo. Anche Laura non rimane indifferente a questo uomo gentile, così diverso da suo marito, e di cui percepisce l’interesse per lei. Inizia tra loro un delicato gioco di attrazione che però rimane soffocato, sfumato come la nebbia che avvolge il lago.
Laura era ora nel suo posto preferito, guardava fuori dalla finestra anche se non riusciva a vedere quasi niente, la nebbia aveva sommerso tutto come un’alluvione e la casa assomigliava a una nave affondata che l’acqua torbida lambisce dolcemente. (..) Si distese. Davanti agli occhi chiusi vedeva la faccia di Ričs, magra, pensosa, battuta dal vento di primavera, così come l’aveva vista l’ultima volta: gli occhi scuri la guardavano, imploranti e remissivi, e lei si vergognava dei suoi pensieri. Un’onda di compassione la raggiunse e ribollendo l’avvolse nei suoi gorghi … Con quella compassione si addormentò, ma si svegliò con un’inspiegabile e inebriante premonizione di una lontana felicità. (pag.262)
Dunque, un romanzo che ruota attorno ad un amore che non trova compimento, che rimane sospeso come le atmosfere in cui si muovono i protagonisti; una prosa delicata, preziosa, evocativa, un pennello che dipinge come nei quadri impressionisti, in cui la luce colta in quell’attimo, en plein air, sembra fermarsi sulla tela, in cui i silenzi danno voce ai rumori della natura, alle voci squillanti dei bimbi, ai sentimenti di chi, da una sponda all’altra del lago, insegue una felicità impossibile.

Regīna Ezera (1930-2002) è considerata la grande dame della prosa lettone e una delle voci più importanti della letteratura baltica, autrice di una ventina di opere che si distinguono per la singolare finezza psicologica. Nata a Riga in una famiglia di origini in parte polacche e bielorusse e cresciuta in un mondo che è sempre stato un intreccio di lingue e culture, nel 1965 si trasferisce a Brieži, in campagna, nei pressi del fiume Daugava, «vicino a un bosco e all’acqua», dove ha sempre voluto vivere e dove rimarrà fino alla morte. Nel 1972 arriva la sua consacrazione di scrittrice con Il pozzo, che nello stesso anno ottiene il Premio Statale della Repubblica Sovietica di Lettonia e nel 1976 viene tradotto in un film di successo, La sonata del lago, rimanendo il suo romanzo più amato e conosciuto, oggi diventato un classico.
Splendida recensione
Complimenti 🎈
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Grazie! Quando un libro è bello, però, viene tutto più facile…..
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