Usare la parola confessare implica una vergogna sottintesa, e invece non c’è niente del genere. Inoltre è stata costretta a rendersi conto di non essere più una rom. Lo è stata, una vita fa, ma non lo è più. Adesso non è niente, né rom né ebrea, né tedesca né svedese. Non è neanche smålandese. Solo Miriam. Oppure Malika. Oppure nessuna delle due. (pag. 491)

Io non mi chiamo Miriam, di Majgull Axelsson, Iperborea 2016, traduzione di Laura Cangemi, postfazione di Björn Larsson, pagg. 565

Tenevo da parte questo romanzo da diverso tempo; più di una volta stavo per leggerlo, poi, con qualche scusa, lo rimettevo sullo scaffale, dandomi altre priorità. Perché questo è un romanzo impegnativo. Bellissimo e impegnativo. Doloroso, in ciò che racconta, delicato nel modo in cui lo racconta. Un romanzo coraggioso che consiglio di leggere, con la consapevolezza che è uno di quelli che toccano nel profondo.

Arrivata agli ottantacinque anni, Miriam, nel giorno del suo compleanno, riceve in dono dai suoi cari un braccialetto zingaro, col suo nome inciso. Loro non ne sono consapevoli, ma è un oggetto che la riporta indietro alle sue origini, quelle che ha sempre tenuto nascoste, perfino alla sua famiglia, e che ora non riesce più a tacere.

Miriam è in realtà Malika, una ragazzina rom cresciuta in Germania; dapprima strappata alla famiglia, insieme ad altri bambini rom e rinchiusa in un convento di suore per essere “civilizzati”, si trova ad affrontare l’incubo della deportazione nazista e dei campi di concentramento. Dopo avere visto l’orrore coi propri occhi, dopo indicibili sofferenze, durante un trasferimento in treno da Auschwitz a Ravensbrück, per sfuggire al destino riservato ai rom, scambia i suoi vestiti con quelli di una ragazza ebrea morta sul vagone; e da allora, per tutta la sua vita, sarà Miriam Goldberg.

Malika/Miriam, nei campi di concentramento nazisti, ha vissuto tutto l’orrore che un essere umano possa immaginare: gli esperimenti del dottor Josef Mengele, la fame, le botte, le malattie, i lavori forzati, il freddo. E la morte del fratellino, e della cugina, insieme a migliaia di altre persone. Miriam si salva e reagisce cercando di dimenticare queste atrocità della guerra una volta arrivata a Jönköping, una città svedese della provincia dello Småland, dove la buona Hanna si prenderà cura di lei. E dove si farà una famiglia.

L’autrice ricostruisce – con un minuzioso e intenso lavoro di analisi –  in forma di romanzo una realtà storica che rappresenta un doppio tabù: le atrocità commesse nei campi di concentramento nazisti e l’Olocausto dei rom, una delle pagine dell’infinito orrore ignorate, almeno fino alla fine degli anni Ottanta. Un destino, quello dei rom, all’interno dei campi ancora più tragico di quello degli altri prigionieri. Perché nemmeno dai loro stessi compagni di prigionia potevano essere considerati uguali agli altri. Ed è per questo che Malika decide di impossessarsi dell’identità di una ragazza ebrea morta, perché pensa che da ebrea avrebbe avuto più possibilità di salvarsi.

Nemmeno dopo l’arrivo in Svezia, come profuga, può riappropriarsi della propria identità; sebbene la Svezia le appaia come un paradiso, dopo ciò che ha passato, dovrà prendere atto che anche lì i rom, i “tattare” sono indesiderati e lei stessa, sarà aggredita da un gruppo di facinorosi perché ha i capelli neri e ricci. Dunque meglio continuare a mantenere il segreto, perché una piccola profuga ebrea di buona famiglia, può essere accolta e protetta mentre, dalle stesse persone, una rom sarebbe rifiutata. Ecco quindi che uno dei temi su cui poggia la narrazione è quello del trauma subito e del fatto che induca a vivere una vita intera dovendo mantenere un segreto: mantenere il controllo delle proprie emozioni, soppesare continuamente cosa si può dire, indirizzare il proprio comportamento.

Nel romanzo si fa strada un altro tema forte: quello dell’identità. Malika, spinta dal terrore e dall’istinto di autoconservazione, si appropria dell’identità di una ragazza ebrea; questa decisione le salverà in effetti la vita e le permetterà di essere accolta e aiutata ad inserirsi nella società. Ma il prezzo da pagare è quello di rinunciare al suo passato, ai suoi ricordi, nonostante questi siano sempre pronti a braccarla, spuntando negli incubi, riemergendo di fronte a parole e situazioni in grado di ricordarle la sua vera identità. Miriam si sottopone ad una dura autodisciplina, si impone di trattenere i ricordi, di riuscire a dissimulare i suoi turbamenti; deve continuare ad essere la buona ebrea, educata, riservata e servizievole, altrimenti sarebbe costretta ad ammettere le sue origini e la sua menzogna. E le conseguenze potrebbero rivelarsi disastrose.

Malika/Miriam ha rinnegato per così tanto tempo se stessa, ha confinato i ricordi, i volti delle persone amate, ha costruito un castello ingannevole e, ora forse, non è più né l’una né l’altra.

Il volume contiene un illuminante saggio di Björn Larsson.

Qui potete leggere l’incipit.